Tutto era iniziato in Italia quando qualche stagione fa alcuni blasonati giornalisti di moda erano stati “soppiantati” da influencer nelle prime file delle sfilate milanesi.
I brand anche da noi si erano resi conto che l’awareness del loro marchio era maggiore se messa in mano ai telefonini dei millennials piuttosto che nelle penne avvelenate delle reporter che avevano detenuto il monopolio dell’informazione.
Ovviamente la situazione è sfuggita di mano. Dall’invito in prima fila si è passati in poco tempo al pagamento per sponsorizzare travel, food, moda, qualsiasi tipo di oggetto. Tanto che ora in America è necessario aggiungere hashtag come #paid #ad #sponsored #paid per far capire all’utente che siamo di fronte a un consiglio prestato a pagamento.
E anche in Italia la Camera (dei deputati, passiamo alla politica, per chiarezza) l’altro giorno si è mossa, impegnandosi a legiferare presto. Perché la questione diventa rilevante se un post a pagamento arriva a costare alle aziende fino a 20mila dollari. La nostra influencer più famosa, Chiara Ferragni, raggiunge i 10 milioni di follower su Instagram, per dire, e una sola foto può cambiare (si dice) il destino di un prodotto.
La piega che sta prendendo questa forma di adv ci induce a varie riflessioni. In primis, quella che il bollino “ad” sui social network sembra ormai abbastanza tardivo, nel senso che la maggioranza di chi li usa sa bene cosa è sponsorizzato e cosa no. Anche perché chi guarda con ossessione Ferragni and co. ha almeno provato una volta a fare lo stesso (cioè a farsi pagare per sponsorizzare qualcosa). Questa è la regola del web 2.0: ognuno può essere una star a pagamento, se si impegna a cercare l’opportunità giusta (certamente non è richiesto impegno per sviluppare talento).
Altra cosa è la piaga degli influencer per le aziende: sono proprio sicure di aver fatto centro ad aver puntato così tanto su semi-sconosciuti che ora, per legge, saranno costretti anche a dichiarare di essere pagati per mostrare l’ultima sciarpetta? Che caduta di stile è? E la reputazione?
E arriviamo al terzo punto. La web reputation si chiama così proprio perché tutto sul web è fiducia e reputazione. Nel momento in cui la si perde, difficilmente la si riacquista. E si sa, su internet tutto corre al nano-secondo. Chi dichiarerà di essere pagato per raccontare meraviglie di un luogo o di un accessorio che reputazione esprimerà di se stesso e del brand che in quel momento promuove? Attenti alla trappola TripAdvisor: il social dei commenti dei ristoranti sta perdendo la buona reputazione proprio per l’enorme utilizzo di recensioni a pagamento.
Si è persa davvero la direzione anche nel web, quindi. Ciò che era basato sulla fiducia, a quanto pare, ora è basato sul dio denaro. E a trionfare, almeno in facciata, non è più l’utilità dei consumer ma quella di chi può permettersi sponsorizzazioni più ricche. Anche se la giungla del non-detto sta per finire.
Commenti e opinioni
La brutta piega (o piaga?) del marketing degli influencer
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La brutta piega (o piaga?) del marketing degli influencer
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La brutta piega (o piaga?) del marketing degli influencer
Tutto era iniziato in Italia quando qualche stagione fa alcuni blasonati giornalisti di moda erano stati “soppiantati” da influencer nelle prime file delle sfilate milanesi.
I brand anche da noi si erano resi conto che l’awareness del loro marchio era maggiore se messa in mano ai telefonini dei millennials piuttosto che nelle penne avvelenate delle reporter che avevano detenuto il monopolio dell’informazione.
Ovviamente la situazione è sfuggita di mano. Dall’invito in prima fila si è passati in poco tempo al pagamento per sponsorizzare travel, food, moda, qualsiasi tipo di oggetto. Tanto che ora in America è necessario aggiungere hashtag come #paid #ad #sponsored #paid per far capire all’utente che siamo di fronte a un consiglio prestato a pagamento.
E anche in Italia la Camera (dei deputati, passiamo alla politica, per chiarezza) l’altro giorno si è mossa, impegnandosi a legiferare presto. Perché la questione diventa rilevante se un post a pagamento arriva a costare alle aziende fino a 20mila dollari. La nostra influencer più famosa, Chiara Ferragni, raggiunge i 10 milioni di follower su Instagram, per dire, e una sola foto può cambiare (si dice) il destino di un prodotto.
La piega che sta prendendo questa forma di adv ci induce a varie riflessioni. In primis, quella che il bollino “ad” sui social network sembra ormai abbastanza tardivo, nel senso che la maggioranza di chi li usa sa bene cosa è sponsorizzato e cosa no. Anche perché chi guarda con ossessione Ferragni and co. ha almeno provato una volta a fare lo stesso (cioè a farsi pagare per sponsorizzare qualcosa). Questa è la regola del web 2.0: ognuno può essere una star a pagamento, se si impegna a cercare l’opportunità giusta (certamente non è richiesto impegno per sviluppare talento).
Altra cosa è la piaga degli influencer per le aziende: sono proprio sicure di aver fatto centro ad aver puntato così tanto su semi-sconosciuti che ora, per legge, saranno costretti anche a dichiarare di essere pagati per mostrare l’ultima sciarpetta? Che caduta di stile è? E la reputazione?
E arriviamo al terzo punto. La web reputation si chiama così proprio perché tutto sul web è fiducia e reputazione. Nel momento in cui la si perde, difficilmente la si riacquista. E si sa, su internet tutto corre al nano-secondo. Chi dichiarerà di essere pagato per raccontare meraviglie di un luogo o di un accessorio che reputazione esprimerà di se stesso e del brand che in quel momento promuove? Attenti alla trappola TripAdvisor: il social dei commenti dei ristoranti sta perdendo la buona reputazione proprio per l’enorme utilizzo di recensioni a pagamento.
Si è persa davvero la direzione anche nel web, quindi. Ciò che era basato sulla fiducia, a quanto pare, ora è basato sul dio denaro. E a trionfare, almeno in facciata, non è più l’utilità dei consumer ma quella di chi può permettersi sponsorizzazioni più ricche. Anche se la giungla del non-detto sta per finire.
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Christian D'Antonio
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