La street art è sempre più controversa e genera controversie, ravvedimenti, dubbi e soprattutto scatena opinioni. Quando lo street style è diventato mainstream negli anni 80 (partendo dai muri di Nyc e Chicago), il fenomeno sembrava relegato al massimo a qualche video di Mtv, nessuno si sarebbe immaginato il livello di mania che avrebbe raggiunto.
Oggi viviamo in un mondo iper-commercializzato in cui anche i graffiti sono diventati degli affari. Se Banksy può arrivare a costare 20 milioni di dollari (ma chi si porta un pezzo di muro con un topo a casa?), Obey (aka Shepard Fairey) si è fatto strada dal design alla campagna elettorale del primo Obama, fino ad arrivare alla concessione di licenze per le t-shirt col suo marchio.
Dove sta il pensiero-contro, il sovversivismo del messaggio, il fuck-the-system con cui molti street artist della prima ora condivano le proprie opere? Forse è svanito, forse si è adattato ai tempi. L’irriverenza dei graffiti ora ispira una nuova economia, muove un turismo underground per ammirare i muri prima che si sgretolino, alimenta un voyeurismo digitale in cui gli artisti si vantano di aver fatto il colpaccio notturno.
Poi però salta alla ribalta Blu, l’artista di Bologna, che la notte prima della tentata commercializzazione dei suoi graffiti, si è preso la briga di andare a cancellarli tutti. Forse integralista, forse obbediente alla sua coerenza di artista di rottura. “Finché i ricchi e i potenti si approprieranno dei murales, Blu non farà più niente a Bologna”, pare abbia detto furioso l’artista.
Che l’establishment si avvicini a quello che sembrava fino a ieri indecoroso, è un’indicazione dello status che la street art ha raggiunto. La sfuriata di Blue era contro una fiera d’arte che voleva “preservare dalle incurie le opere di strada“. Proprio perché figlia del suo tempo, dovremmo ricordarci che la street art è caduca, fragile, vive nella memoria dei selfie digitali e poi può anche scomparire. Alcuni protagonisti vogliono la propia arte a servizio di tutti, altri la commercializzano, altri la vendono ai galleristi per far fortuna. La ricchezza però non sta nell’acquistare la street art, nel detenerla. Ma nel meccanismo riabilitativo che esercita nei luogi emarginati, nell’abbellimento estetico che colora i nostri frenetici tragitti metropolitani. E nell’essersi già presa una globale rivincita storica: non erano solo scarabocchi.
Christian D’Antonio (Salerno,1974) è direttore responsabile della testata online di lifestyle thewaymagazine.it.
Iscritto all’albo dei giornalisti professionisti dal 2004, ha scritto due libri sulla musica pop, partecipato come speaker a eventi e convegni su argomenti di tendenza e luxury. Ha creato con The Way Magazine e il supporto del team di FD Media Group format di incontri pubblici su innovazione e design per la Milano Digital Week e la Milano Design Week. Ha curato per diversi anni eventi pubblici durante la Milano Music Week. È attualmente ospite tv nei talk show di Damiano Gallo di Discovery Italia.
Ha curato per il quartiere NoLo a Milano rassegne di moda, arte e spettacolo dal 2017. In qualità di giudice, ha presenziato alle manifestazioni Sannolo Milano, Positive Business Awards, Accademia pizza doc, Cooking is real, Positano fashion day, Milan Legal Week.
Quella che vedete in foto è una inedita installazione visibile liberamente a Torino. L’installazione richiama alla memoria le maestose scenografie
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Commenti e opinioni
La street art da lotta a simbolo di ricchezza
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La street art da lotta a simbolo di ricchezza
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La street art da lotta a simbolo di ricchezza
La street art è sempre più controversa e genera controversie, ravvedimenti, dubbi e soprattutto scatena opinioni. Quando lo street style è diventato mainstream negli anni 80 (partendo dai muri di Nyc e Chicago), il fenomeno sembrava relegato al massimo a qualche video di Mtv, nessuno si sarebbe immaginato il livello di mania che avrebbe raggiunto.
Oggi viviamo in un mondo iper-commercializzato in cui anche i graffiti sono diventati degli affari. Se Banksy può arrivare a costare 20 milioni di dollari (ma chi si porta un pezzo di muro con un topo a casa?), Obey (aka Shepard Fairey) si è fatto strada dal design alla campagna elettorale del primo Obama, fino ad arrivare alla concessione di licenze per le t-shirt col suo marchio.
Dove sta il pensiero-contro, il sovversivismo del messaggio, il fuck-the-system con cui molti street artist della prima ora condivano le proprie opere? Forse è svanito, forse si è adattato ai tempi. L’irriverenza dei graffiti ora ispira una nuova economia, muove un turismo underground per ammirare i muri prima che si sgretolino, alimenta un voyeurismo digitale in cui gli artisti si vantano di aver fatto il colpaccio notturno.
Poi però salta alla ribalta Blu, l’artista di Bologna, che la notte prima della tentata commercializzazione dei suoi graffiti, si è preso la briga di andare a cancellarli tutti. Forse integralista, forse obbediente alla sua coerenza di artista di rottura. “Finché i ricchi e i potenti si approprieranno dei murales, Blu non farà più niente a Bologna”, pare abbia detto furioso l’artista.
Che l’establishment si avvicini a quello che sembrava fino a ieri indecoroso, è un’indicazione dello status che la street art ha raggiunto. La sfuriata di Blue era contro una fiera d’arte che voleva “preservare dalle incurie le opere di strada“. Proprio perché figlia del suo tempo, dovremmo ricordarci che la street art è caduca, fragile, vive nella memoria dei selfie digitali e poi può anche scomparire. Alcuni protagonisti vogliono la propia arte a servizio di tutti, altri la commercializzano, altri la vendono ai galleristi per far fortuna. La ricchezza però non sta nell’acquistare la street art, nel detenerla. Ma nel meccanismo riabilitativo che esercita nei luogi emarginati, nell’abbellimento estetico che colora i nostri frenetici tragitti metropolitani. E nell’essersi già presa una globale rivincita storica: non erano solo scarabocchi.
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Christian D'Antonio
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