I grandi parlano solo attraverso la propria arte. E Grace Jones, diva del cinema e della musica dagli anni 70 in poi, è protagonista indiscussa di una biopic senza interviste e ricostruzioni. Si chiama “Grace Jones: Bloodlight and Bami” ed è stato presentato all’ultimo Toronto Film Festival e sta facendo il giro del mondo in queste settimane.
Il titolo scelto con la regista Sophie Fiennes richiama lo slang giamaicano che indica le luci rosse e un particolare tipo di pane locale. Come a dire, la sua verità tra ribalta dello showbiz e pane quotidiano. Il tutto è raccontato prevalentemente in immagini e musica, con i testi delle canzoni della star a far da traccia allo svolgimento del racconto.
E c’è molto di privato in questa biopic, dal rapporto con la sua terra d’origine (Giamaica) alle difficoltà che ha superato da bambina alla maschera da teatrante consumata che ogni sera indossa onstage.
“Sophie mi ha invitato a vedere un film tramite mio fratello – dice Grace parlando del rapporto con la regista – e c’è stata subito magia, era già scritto che ci sarebbe stato qualcosa tra di noi. Questa è una rappresentazione diversa di me, è un film che ho seguito completamente e anche se preoccuperà qualcuno, io voglio che tutti lo vedano“.
Tutto il film è stato fatto prima che uscisse il libro autobiografico “I’ll Never Write My Memoirs” a cura del famoso giornalista inglese Paul Morley, che nel 2015 ha avuto molto interesse. “Tutto deve essere perfetto, lo è stato per lei per decenni. Ma ora è il momento di essere libera e questa cosa mi ha reso molto più forte”, dice la protagonista parlando dello stile backstage delle riprese, durate un decennio in giro per il mondo. La regista l’ha seguita per ogni dove con le telecamere, specialmente durante i momenti creativi delle famigerate performance che fanno ancora oggi parlare il mondo.
“Ci accomuna l’essere cresciute in grandi famiglie – dice Sophie – e l’essere interessate a tanta creatività. Grace è quella che prese il telefono e dopo varie conversazioni iniziò a chiamarmi. Del tipo: vieni a Mosca? Andiamo in Giamaica e facciamo qualcosa assieme?”.
Per Sophie Fiennes “è stato come trasporre in film un teatro, perché Grace porta in giro davvero uno spettacolo teatrale. Ma abbiamo pensato entrambe che la semplicità fosse la vera forza di questo lavoro e le canzoni personali parlano da sole, formano la parte narrativa del film”.
Non essendo una donna di preparativi estenuanti, la spontaneità si percepisce nel film, anche se non si direbbe che è girato in un tempo così lungo, grazie anche alla prodigiosa tenuta fisica della diva che ormai è in una dimensione atemporale. Più circostanziate sono le scene di quando la diva torna a casa in Giamaica a visitare parenti e amici e quando la pellicola passa in rassegna le fasi preparatorie del capolavoro del 2008, Hurricane, il suo album più completo e rivoluzionario della seconda parte della carriera. Chi si accosta al film con nostalgia resterà però deluso: nessun richiamo ai tempi in cui la diva finì in un film di James Bond o una famigerata pubblicità di macchine dove era assimilata a un robot. Gli anni 80 son lontani e qui si vede solo la grazia di Grace nell’ultimo e più vicino scorcio della sua carriera.