Sabrina Casiroli è una creativa milanese che da sempre è in movimento e in evoluzione. L’ultima uscita cittadina la si deve al progetto del 2017 “Inside Out Project Milan/ All the world in a school” (www.collettivocollirio.org) ma la fotografa ha fatto anche parte di atti performativi a Barcellona e Budapest, dove ha lavorato per la PH21 Gallery.
Quello che ci ha colpito di Sabrina (Reaxen.tumblr.com) è la cura dei dettagli e le emozioni cromatiche che le sue immagini sanno comunicare. Un’occasione unica per farci spiegare la sua arte l’abbiamo avuta recentemente con questa intervista.
Da dove deriva il termine straight photography?
Ho utilizzato questo termine perché rimanda ad una fotografia di inizio secolo in cui viene nobilitata la figura del fotografo e la sua comprensione del mezzo fotografico. La fotografia è sempre stata controversa come arte perché abbisogna di un mezzo per essere prodotta, ecco perché è così lungo il suo travaglio per essere annoverata anch’ella nelle arti. Questi fotografi d’inizi secolo volevano essere considerati tali e non essere confusi con i pittorialisti. Sono gli inventori del reportage e dello scatto puro, in quanto, amavano ritrarre ciò che appariva di fronte al loro occhio umano. Questo significa non manipolare la realtà per renderla migliore o più piacevole ma, vedere il mondo così com’è. Le loro posizioni ora sono estreme ma, quando una cosa nuova prende forma ha bisogno di linee guida per essere definita e il linguaggio fotografico si stava creando proprio in quegli anni.
Tu ti rivedi in loro?
Io ora non pratico certo una fotografia “purista” ma l’ho praticata, ho conosciuto tutte le potenzialità del mezzo, ho scattato in tutti i modi, tutti i tipi di soggetti prima di trovare la mia particolare forma espressiva. Possiamo dire che alla base del mio lavoro c’è anche la straight photography in quella particolare accezione di voler restituire i sentimenti e la vita delle persone per quelle che sono.
Hai pubblicato spesso sul web i tuoi lavori. Il tuo nick Rea Xen da cosa deriva?
Rea Xen, si parla delle primissime chat agli inizi degli anni 2000. Il mio primo nickname e fino ad oggi unico. Non esistevano interfacce grafiche c’era solo MIRC, tutto era digitato a tastiera. Anche le emoticon. Le famose faccine. Un mio amico mi aveva introdotto, erano gli anni del cyber-punk, iniziavano le prime sperimentazioni con la realtà virtuale e le prime chat. Quando si è trattato di scegliere un nome ho messo insieme due concetti diversi. La prima parte del nome allude alla protagonista del libro di Richard Bach: “Nessun luogo è lontano” romanzo che tramite la metafora degli uccelli e del volo parla d’ impermanenza e crescita personale. Solo per citarne una frase: “Può forse una distanza materiale separarci davvero dagli amici? Se desideri essere accanto a qualcuno che ami, non ci sei forse già?”. Xen invece allude ad un medicinale, uno psicofarmaco che altera le percezioni. La parola rimanda alle tossicità e ai comportamenti abitudinari che ci autoinfliggiamo. Il nick name sintetizza perfettamente le due anime del mio carattere una che tende verso una dimensione più spirituale l’altra più punk e arrabbiata.
Cosa ti ha portato alla fotografia artistica e come hai iniziato?
Ho avuto la fortuna di studiare in una scuola elementare sperimentale. Dove ci hanno trasmesso l’amore per l’arte. L’arte era una materia integrata con tutte le altri e di uguale importanza. Inoltre il metodo prevedeva la multidisciplinarietà. Avevamo a disposizione molti libri d’arte per bambini e il mio preferito era quello di Mirò. Un libro semplice ma efficace, la mia fantasia ne era stimolata immaginando mondi fantastici immergendomi nei colori intensi della sua pittura. Da quei primi anni è nato in me l’interesse per l’arte.
Eri incoraggiata?
Vengo da una famiglia di musicisti, io ho suonato il pianoforte per tutta la mai infanzia. L’arte è sempre stata centrale nella mia formazione educativa ma, è solo dopo aver visitato un’esposizione fotografica dell’artista Man Ray che qualcosa cambia in me. Decido così di frequentare il mio primo corso di fotografia e stampa B&W, avevo 17 anni. Stampo per diversi anni, il mio primo amore è sicuramente la fotografia in B&W. Inizio a fotografare sempre. Non ho ricordi di me senza la macchina fotografica. Ne ho pochissimi. Avevo la macchina sempre insieme a me, pronta a cogliere la vita che mi circondava. Ero giovane ed ero attratta dal mondo però già allora prediligevo l’essere umano. Non che non fossi interessata ai luoghi ma, il tema centrale erano le persone sia nella loro vita quotidiana in casa che fuori. Il mio approccio al mezzo fotografico è sempre stato di tipo introspettivo emozionale.
Il momento di rottura?
Frequento un workshop con Cristina Núñez (Self-portrait experience) e sperimento il suo metodo. Intuisco le potenzialità di utilizzare l’autoritratto e inizio così una serie d’immagini che diventeranno poi la base del mio lavoro personale. In seguito ricevo il diploma di fotografa professionale presso il Cfp Bauer di Milano con un progetto di arte pubblica che ha come tema i ritratti dei volti dei prigionieri palestinesi. Il mio focus principale rimane comunque il corpo femminile con le sue pieghe, nodi, trame. Il corpo stesso, nelle mie immagini, si fa catalizzatore di emozioni ed è utilizzato come veicolo per raccontare storie proprie o altrui. Il corpo con la sua postura racconta i vissuti di ognuno di noi e ci porta dentro le nostre storie personali. Apprendo tramite il workshop: “The photographic bookdummy” di Machiel Botman a utilizzare le immagini seguendo le proprie suggestioni, inventando un percorso che contenga una piccola storia, personale, all’interno delle immagini scelte per i miei progetti. Arrivo così, anche in seguito ai miei studi, a voler raccontare e interessarmi di moda ed esibizioni teatrali, lasciando come unico e vero soggetto il corpo, parlante, all’interno di performance e spettacoli inerenti l’argomento.
Dove si incontrano scatto e dinamismo della performance?
Nel catturare le immagini, anche quelle in movimento, cerco di registrare il processo che l’artista compie e la performatività delle pose assunte. Le immagini sono delle vere e proprie photo-performance che cercano di superare la bidimensionalità della carta. Parallelamente alla fotografia, ed a volte fuse assieme, progetto ed attuo io stessa performance. Sia che sia io stessa a ritrarmi in foto o video, oppure che mi faccia supportare in questo da altri, offro il mio corpo nudo, come simbolo di una nudità interiore, capace di andare oltre. Il corpo diviene protagonista nelle immagini e nella realtà delle azioni. Un corpo fragile, vero nella sua interezza e forte in quanto pura espressione della mia più intima natura.
Con la serie dei corpi, soprattutto femminili, hai seguito un mood , un messaggio di base che vuoi trasmettere?
Il messaggio di base semplice ma chiarissimo è essere come si è. Le donne fotografate sono infatti, per mia scelta personale, donne comuni, donne normali, donne che attraversano la nostra vita di tutti i giorni. Sono donne che cercano di vivere nel presente, nel qui ed ora. Sono guerriere della luce. Donne che oltrepassano intemperie ma non si scoraggiano. Donne che nella loro essenza autentica, nonostante siano sull’orlo di un precipizio, mantengono la speranza di un cambiamento e di una rinascita. Queste donne chiedono di potersi esprimere liberamente, parlare onestamente, essere loro stesse, essere sincere, poter esprimere i loro sentimenti senza pregiudizi.
Credi ci sia da fare ancora su questo fronte?
Purtroppo, ancora oggi, vediamo che nella maggior parte del mondo, questa libertà non è concessa. Molte donne sono ancora vittime di violenze e soprusi. Molte donne ancora non possono essere quelle che sono. Per questo nelle mie fotografie cerco di far esprimere ognuna nella sua unicità accompagnandola alla ricerca della sua dimensione di espressione personale. Ogni donna diventa così, metafora e specchio della mia intimità, ogni gesto un prolungamento della mia anima, ogni resistenza un passo deciso verso il cambiamento, ogni scatto un avvicinamento alla scoperta reciproca.
La tecnica mi sembra molto complessa, ma anche molto riconoscibile. Come raggiungi questo risultato finale?
La mia ricerca artistica si basa sulla composizione di un’immagine in differenti livelli. Virtuali o reali che siano, i livelli rappresentano metaforicamente la profondità dell’animo umano e i diversi gradi di conoscenza che si possono raggiungere. I livelli, layers in inglese, possono essere elaborati sia in post-produzione che con l’utilizzo dei materiali nella fase di montaggio dell’opera. I layers, a livello concettuale, rappresentano il passato e il presente e si dispongono per creare il futuro. Il risultato della fusione di più immagini, prodotte e catturate con differenti tecniche, crea un’opera unica. L’immagine finale, che è composta di tutte le altre, di vuoti e di pieni, spesso non appartiene più alla classificazione di semplice immagine fotografica, ma diventa un ibrido creativo che dialoga con tutte le differenti tecniche di produzione di un’immagine. Nonostante ogni singolo layers abbia un suo contenuto autonomo, solo nella somma delle parti si trova il suo significato ultimo. Spesso le mie opere sono impresse o stampate su materiali trasparenti che producono un effetto di camuffamento e fusione con il fondo utilizzato. Si crea così un ulteriore livello di significato tra l’immagine e la texture scelta come supporto. I layers a questo punto diventano materia viva. La materia si può toccare, la materia supera l’immagine fissa e la rende tridimensionale.
Cosa t’interessa maggiormente, lo scatto live o la post produzione che pensi di poterci applicare?
Entrambe le cose. Lo scatto live per me è imprescindibile. La fotografia è tale nel momento dello scatto. L’elaborazione che ne verrà in seguito è frutto di un lavoro di sedimentazione che magari può durare anni. Alcune immagini non vengono neanche post-prodotte e, appartengono quindi alla fotografia definita appunto “straight” nel senso che ritraggono senza alcun editing la realtà che mi presenta davanti nell’istante in cui scatto. L’elaborazione finale dell’immagine è un processo in continuo divenire, non si arresta, una volta individuata la fotografia, la lavoro per parecchi giorni applicando differenti stratificazioni sia di colore sia di significato. Miscelo il B&N con il colore, mescolo le immagini aprendo sinapsi e creando connessioni sempre nuove e diverse. Stratifico di contenuti multipli l’immagine, non sporcandola ma, aumentandola. Mi permetto di giocare con il digitale per creare immagini uniche.
Le foto del servizio, gentilmente concesse a The Way Magazine da Sabrina Casiroli, sono della serie Ineffabile Imperfezione.