Un album vero e suonato in ogni nota dal suo autore , questo “Self Magic” di Emiliano Pepe, musicista, arrangiatore e produttore. Un disco che si fonda sul minimalismo con tante influenze, tra jazz, funcky e soul, accompagnate dalle immagini dei visual, realizzati da Xu Ruichi, mentre Ester Bartolini, musa eterea e affascinante, ispira e incanta.
In brani come “Can I come with you”, Emiliano parla della sua famiglia: lui che arrivò alla celebrità ai più per la partecipazione al reality “Pechino Express” in coppia con sua moglie, la speaker di Radio Deejay La Pina (erano “gli sposini” nell’experience-game del 2014). Nel disco, cantato e suonato, parla del rapporto casalingo con la consorte, del lockdwon che li ha uniti molto e poi “separati”.
Emiliano, c’è un pensiero unico dietro le tracce di “Self Magic”?
Il pensiero che sta dietro l’album è la cura del corpo, la magia di se stessi, la grossa capacità che si ha col proprio corpo e ascoltarlo. È un album che va sentito così, bisogna prendersi del tempo per se stessi, volevo realizzare qualcosa che non fosse per forza intrattenimento, bisogna concentrarsi per sentire queste canzoni.
Pensi che sia un’esigenza in linea coi tempi?
La musica è un momento importante anche per la comunità, se siamo più in pace con noi stessi agiamo meglio per tutto. Per mestiere ascolto tanta musica ma non tanto per fare, spesso mi trovo a rimanere concentrato a scomporla, a capire certe sfumature di quello che ascolto. Non so se è quello che fanno tutti oggi, perché è faticoso, alcuni generi di intrattenimento comunque si fa bene ad ascoltarli mentre si fa altro. Per esempio, in questo momento parlo con te e ascolto afro-beat.
Chi ti ha dato un’ispirazione per il paesaggio sonoro del disco? Sembra davvero molto curato…
Quando ho fatto l’album Dargen D’Amico e mia moglie sono stati il mio confronto. Avevo talmente idea chiara di quello che volevo fare che non riuscivo a spiegarla a nessuna. Quindi mi sono dato allo studio della batteria, ogni giorno mi esercitavo alla stessa ora. Di tempo ne abbiamo avuto nell’ultimo anno, quindi ho registrato batteria, chitarra, piano. Poi Luca Jurman, il famoso vocal coach, mi ha dato una chiave per un tipo di canto nuovo, con respirazione particolare. È stato più facile imparare che chiedere. E ho finito per fare il disco da solo.
Da cosa si parte per un progetto così ambizioso?
A volte sono partito dal beat e ci ho messo il resto. Uno strumento per ogni canzone ha dato il via alla composizione, ero io il gruppo, mi parlavo da solo come se fossi in quei momenti uno dei vari componenti. Tuttora mi sento più un pittore che un musicista. Col mio studio in casa e la tecnologia che ci permette di fare musica è una bellissima possibilità. Ho impastato i colori e poi sono passato a dipingere. L’album è caldissimo per questo.
Un album casalingo per un periodo di riposto forzato per i musicisti. Cosa ti è rimasto di questa esperienza?
Prima che scoppiasse la pandemia ero già in volontario lockdown, avendo girato molto in Asia avevo intuito quello che stava succedendo. Viaggiando ho visto già mascherine, distanziamento, igiene. Nelle canzoni poi c’è il rapporto con mia moglie in alcuni passaggi, lei faceva la radio nel suo studio e io musica nel mio. Poi quando c’è stato un ritorno alla semi-normalità, ho sofferto molto il distacco. Lei è tornata a lavorare, andava in radio. Io le chiedevo ‘posso venire con te?’ proprio come farebbe un bambino.
Cos’è l’Oriente per te?
Anzitutto un esempio. La cultura tipica del Giappone, il minimalismo, anche visivo, del Giappone mi ispira. Il loro concetto di bellezza mi attrae. Ci sono sempre poche cose negli ambienti e quelle tre cose che ci sono, sono esattamente nel posto giusto. Ho lavorato così nel mio album. Non ho mai sommato suoni pensando di incrementarne la bellezza.
Nell’utilizzo di varie lingue nelle canzoni riprendi una vecchia intuizione di Pino Daniele. Si tratta di qualcosa di cosciente?
Pino l’ho ascoltato per una vita intera, è impossibile non sentirlo in me, ha lasciato un imprinting molto forte. C’è della napoletanità in alcuni pezzi, me ne sono accorto venendo a Milano a dire il vero. Le persone con cui lavoravo me la facevano notare sempre, è vista come qualcosa di vicina al mondo del soul. Un giorno ero da Andrea Mariano, Andro, il tastierista dei Negramaro, che mi diceva ascoltandoo Self Magic: quanto è Napoli questa chitarra.
Come vivi la popolarità che ti ha dato la tv e la tua dimensione di musicista di nicchia?
Pechino Express è stato un programma pazzesco, ti segna, ti porta in dei posti incredibili. Era bello essere lì per noi in comppia, ma il meccanismo della tv è complicato, bisogna saperla fare e saper andare nel puro intrattenimento leggero. Da spettatore seguo molto Sky Arte, i documentari, anche Sanremo, che quest’anno è stato molto bello perché frivolo, leggero. Ma dal punto di vista musicale non mi è piaciuto.
In che posto ti vedi da musicista?
Ho la presunzione di confrontare la mia musica in ambito internazionale, da cittadino del mondo, e in qualche modo anche per questo adotto l’inglese quando sento che ci vuole. Mi viene naturale, se l’avessi registrato nel Medioevo l’avrei scritto in latino in modo da farmi capire da tutti. Faccio le mie scelte musicali puntando al meglio, ricordandomi di quello che mi diceva Giovanni Gastel: la cosa peggiore che ti può capitare è che tu abbia fatto un ottimo lavoro.
Che progetti hai per la tua carriera?
Prima di questo disco ho fatto un album solo di pianoforte, che è il mio strumento. Ora ho voglia di suonare, magari in un concerto lungo di pianoforte, e nel mezzo fare entrare le canzoni di questo disco. Mi sono immaginato 10 concerti con una sola canzone di un’ora, dilatata con tutte le parti di pianoforte suonate live. Sarebbe un concerto libero senza struttura, puro feeling.
Foto di Emiliano Pepe: Stefano Iannuso