Attore, regista e interprete, Alfred Ejlli, nato a Scutari in Albania nel 1987, è in Italia da un decennio con una mission: portare avanti il suo progetto artistico che coinvolge cinema, fotografia e finanche una nuova, inedita collezione di moda, Atelier Regjina.
La formazione di Alfred racconta il suo percorso di artista italo albanese multiforme che con pathos immanente ha cercato di collegare con un filo di fantasia il suo percorso di studio e la sua straordinaria creatività. Infatti, negli anni si è specializzato in Psicodramma a Milano. Ha scritto un libro “Ciò che conta” (per Talos Edizioni nel 2016), ne sta preparando un altro sull’estetica nella moda. Nel 2017, ha curato la regia del film documentario dal titolo , Who Am I ? un mediometraggio che vede come protagonisti i rifugiati e le loro storie di vita faticosa. È stato anche interprete e ideatore della sua mostra fotografica nata da un’esperienza personale ( “Il distacco Impossibile” a Verona nel 2016).
Alfred, che posto ha l’Albania nella tua ricerca?
È il paese dove sono nato e ove ho fatto i miei primi passi in un contesto sociale che non vedeva l’ora di aprirsi al mondo, anche al costo della stessa vita. Avevo quattro anni quando le imbarcazioni di ogni tipo cercavano di raggiungere le coste pugliesi e mio fratello era su una di queste. Sono cresciuto nel clima confuso e violento del post-comunismo ma, fortunatamente, la mia famiglia mi ha permesso di studiare e di conseguire la prima laurea in Psicologia presso la Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università “Luigj Gurakuqi” di Scutari, titolo che mi ha permesso poi di insegnare presso due licei a Scutari e Tirana.
Sei partito quindi dall’indagine interiore. Perché?
Volevo conoscermi e di seguito dare voce ai miei pensieri e soprattutto ai miei sentimenti. Spesso ci perdiamo nella confusione esterna della quotidianità e ci perdiamo negli occhi altrui senza forse dare uno spazio maggiore al proprio silenzio. Da sempre ho cercato di ascoltare il ritmo del battito del cuore come una guida interiore nelle scelte della vita per poi rispecchiate anche nella mia arte.
Il mio interesse per la psicologia mi ha portato quindi a proseguire con un Master di Consulenza Psicologica presso l’Università di Scienze Sociali di Tirana. Nel 2010 poi l’evento che ha segnato la svolta fondamentale della mia vita: il mio arrivo in Italia per accompagnare ed assistere mia madre in un importante intervento chirurgico. Nello stesso anno ho conseguito il Master in Formazione Interculturale e Linguistica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, acquisendo poi nel 2013 la Laurea Magistrale in Psicologia Clinica e interventi sulla comunità presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Nel frattempo, lavoravo come educatore, sia in Albania che in Italia.
Come vive una persona così impegnata nel sociale?
La mia vita personale e la mia produzione artistica sono strettamente intrecciate.
Cerco di vivere le giornate con la stessa dinamicità e passione che metto anche nella mia arte dando sempre una particolare importanza ai dettagli, ai piccoli gesti, agli sguardi rubati, ai movimenti silenziosi e a quelle cose che a prima vista forse non degni di tantissima attenzione.
Il progetto fotografico è molto incentrato su di te. Come è farsi fotografare in una posa che hai inventato tu?
Dall’esperienza di assistenza di mia madre in ospedale è nata la mostra “Il distacco impossibile” che ho presentato nel 2016 per la prima volta preso sala R. Birolli a Verona. Ho scelto la fotografia per dare vita ad un vissuto personale esprimendo attraverso gli scatti il concetto della nascita, da grande. Mi sono messo a nudo perché si trattava di un vissuto personale. Mi sono spogliato davanti alla macchina fotografica e mi sono avvolto in una membrana trasparente che vuole simboleggiare il sacco amniotico bagnata, per far sentire nel mio corpo questa “epidermide” appiccicata alla mia pelle. Nel ricostruire questo processo di nascita ho avuto la possibilità di vivere un’emozione forte: avvolto da adulto nel sacco amniotico, dal quale cercavo di uscire. La metafora è di un adulto che deve trovare la forza di aprire il proprio mondo al mondo esterno.
Questa serie fotografica rispecchia la tua fascinazione con il mezzo o è solo un episodio?
La mia passione per la fotografia nasce dal desiderio di dare forma a livello visivo ad una realtà, un vissuto: chi vive spesso non riesce a guardarsi e vedere la propria condizione. A 23 anni ho accudito mia madre in ospedale e ho avuto l’opportunità di vivere un rapporto stretto con la cura del suo corpo: l’ho assistita, così tutto è cambiato: vedere il suo corpo nudo significava vedere il mio corpo nudo. Mi sono messo a nudo perché si trattava di un vissuto personale. La metafora è quella di un adulto che deve trovare la forza di aprire il proprio mondo al mondo esterno.
Cosa ha detto tua madre quando ha visto le foto?
Non avevo condiviso molto con lei di questo percorso. È un tracciato che coinvolge vari sensi e tanti studi sulla psiche e sul rapporto con la figura femminile che mi interessa esplorare. Lei è l’origine di tutto ed è stato forte per me vedere la sua reazione. Voi guardate le foto e giudicate, questa è l’unica emozione che vorrei custodire solo per me.
Il tuo documentario del 2017 aveva una tematica sociale molto forte. Ce ne parli?
Ho girato Who Am I? a Verona al Centro Veronetta 129, un’associazione culturale che ha tra le sue finalità quella di favorire e promuovere l’incontro tra culture diverse e tra le persone. Il film ha avuto il patrocinio del CIR – Consiglio Italiano per i Rigiati e del SPRAR – Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati. Volevo raccontare in immagini la storia delicata delle “identità” che vengono in Italia a chiedere rifugio e asilo politico. Tutti i racconti narrati dai protagonisti, cittadini italiani e non, rifugiati, che hanno vissuto sulla loro pelle il viaggio migratorio, sono storie di vita reale senza maschere. Volevo ascoltare persone, non numeri che danno i media.
Anche il tuo primo libro riguarda le relazioni. A cosa hai attinto?
“Ciò che conta” riguarda le relazioni fra le generazioni della famiglia transnazionale fra Italia e Albania: è un tema che tocca la mia esperienza personale e quella di molti altri miei connazionali. Così come il lavoro di mediatore culturale. Ho posto l’attenzione sul concetto di doppia appartenenza e di dialogo, raccogliendo anche la testimonianza di operatori coinvolti in centri di assistenza migratoria che da anni si occupano di sostegno verso l’integrazione di individui stranieri in Italia.
E poi ora il tuo bagaglio culturale è riversato anche in una linea di moda. Come ti è venuto in mente di fondare Atelier Regjina?
Nell’estate del 2017 sono tornato per un breve periodo nel mio paese e a casa dei miei ho scoperto in un vecchio baule dieci abiti confezionati da generazioni di donne parte della famiglia, a partire dalla mia trisavola. Non sono solo indumenti, ma testimonianze della genealogia di una famiglia, in modo particolare di donne che con dedizione e perseveranza hanno lavorato nell’ombra delle mura domestiche. Le mie ave, se pur costrette fra le faccende di casa e la cura del focolare, hanno dedicato tempo infinito a cucire quegli abiti, e non hanno mai trascurato il loro essere donna, madre, moglie e figlia. Ogni abito è diverso perché è la storia di ciascuna di loro e sto lavorando con le donne della mia famiglia, per preparare una collezione degna della sua storia.
A cosa vi siete ispirati per gli abiti?
La collezione è un tributo alle donne e al ruolo che ricoprono nella vita: grandi lavoratrici e combattenti coraggiose. Voglio vestire donne con una personalità e carattere forte, donne fresche e che trasmettono tanta trasparenza vitale e leggerezza, donne che guardano il futuro con occhi pieni di speranza e che si sentono libere di esprimersi attraverso il loro vissuto mettendo in risalto gli elementi tradizionale di una cittadinanza globale senza alcun tipo di confine e pregiudizio.
Per seguire le iniziative di Alfred Ejlli ecco il suo profilo Instagram: www.instagram.com/alfred_angeli/