Caterina Notte è un’artista multimediale che si avvicina al mondo della fotografia dopo essersi approcciata all’architettura. Un salto esplorativo che le ha permesso di portare in superficie una realtà congelata che spera un giorno si possa liberare. Caterina Notte è oggi un’affermata fotografa, anche se il termine può sembrare riduttivo, che si divide tra ricerca e sperimentazione, tra performances e vita reale. Il suo ultimo progetto “Predator Ubiquity” diverrà più sociale e performativo oltre che virtuale in rete. Si tratta di alcuni video di un minuto che riveleranno il desiderio di libertà racchiuso in una stanza chissà dove. Una lucidità di pensiero che supera il concetto di performance stesso e che per la sua originalità non potevamo lasciarci sfuggire.
Quale percorso artistico ti ha portato ad esplorare determinate situazioni come ad esempio vediamo nel tuo lavoro “Predator”?
I miei primi lavori partivano da me, si trattava di scansioni del mio corpo riassemblate (Genetics) o di video performance (Dissipatio h.g.) con i quali cercavo delle vie di fuga disperatamente da questa realtà per trovare però un collegamento possibile. Perciò ho lavorato sul doppio, a lungo, e alla fine ho capito che il mio doppio non mi bastava più ma che avevo bisogno di altri esemplari che si duplicassero per me. Così ho spostato il mio interesse verso la figura femminile esterna a me e più simile a me nelle sue varie fasi, da bambina ad adolescente a donna. Ho iniziato allora con la fotografia, volevo essere la regista e non più la protagonista e gestire ogni particolare. Ho conosciuto i bambini, questi piccoli geniali “esserini” che un giorno ho deciso di fasciare con delle bende per trattenere la loro energia per lasciarne fuori solo gli occhi, ne ho messi un po’ insieme con un vecchio furgone ed è nato Predator, era il 2010. Nel novembre del 2019 mi trovavo a Monaco, come sempre, stavo lavorando alla serie Aliens con una ragazza appena conosciuta su Instagram e il suo corpo, molto asciutto con le ossa in evidenza e gli occhi grandi e di ghiaccio mi hanno convinta che era il soggetto giusto da fasciare con le bende e far esplodere nella sua algidità ed è così che ho proseguito il percorso di Predator. Al momento giusto.
Come imposti le tue performance?
Ho un bisogno fisiologico di prepararmi giorni prima al meglio facendo vivere la modella per almeno una giornata al mio posto, la osservo attentamente e intanto penso alla location, al tempo, alle luci, a come le bende copriranno con precisione la carne della ragazza e che effetto avrà tutto questo cromaticamente sulla pelle, decido l’esatta posizione delle mani e delle dita, del collo e dello sguardo, e poi all’ultimo istante, prima dello scatto, la realtà mi travolge ogni volta e mi faccio trasportare dalla vita che irrompe nell’istante dello scatto. Credo che il lavoro inizi ogni volta proprio da questo momento. Il soggetto davanti a me non è un manichino o un attore ma è compartecipe della mia realtà. E’ come se la riscrivessimo insieme. Ogni suo gesto che fuoriesce dal mio piano è quasi sempre perfetto. Ma tutto deve essere preparato come una scenografia con una sceneggiatura. Ma nel momento dello scatto, niente di tutto questo ha più importanza. Vedi, è come se preparassi una scena nei minimi dettagli (location, oggetti, vestiti etc…), l’attore deve ancora arrivare, lui ha anche la sceneggiatura naturalmente, così prova a seguirla per un po’ ma dopo 15 minuti io dico ok sei pronto, improvvisa! E’ un po’ così che vanno i miei shoot.
Quanto è importante per te lavorare col corpo?
Tantissimo. Il tema centrale della mia ricerca è sempre stato il ruolo della donna, del suo corpo, della sua forza e della sua debolezza. Il focus è l’impossibilità di essere debole, perché la potenza è nella debolezza e nell’abbandono. Per questo il mio è anche un lavoro sulla bellezza e sulla libertà, sulla carne e su un altro corpo vicino a me. Tutti temi che nascono assolutamente dall’ ”abbandono”, dalla capacità di non pormi limiti e di esplorare.
Cosa pensi ci sia di inesplorato oggi?
La bellezza è un tema paradossalmente troppo poco considerato nella ricerca contemporanea o comunque affrontato sotto altri aspetti. Troppo trascurata. Non mi riferisco alla bellezza nella moda, ma alla bellezza normale e quotidiana e non alla bellezza “sofferente”, del corpo “martoriato”, “post human” e via dicendo. Le mie donne non sono modelle benché la gente tenda a pensarlo, sono belle ragazze che provengono dal mio vissuto sociale, anche dai social per esempio. Fuori nel mondo i canoni di bellezza sono cambiati, la bellezza è ovunque. Credo che sia un aspetto sociale da non trascurare perché ha infinite implicazioni e io sento che devo affrontarlo. Il mio progetto Predator per esempio, come dicevo, si sta ampliando dal punto di vista performativo e ho trovato un sostenitore perfetto nell’associazione Prospettiva Donna impegnata contro la violenza sulle donne. Sto organizzando una grande performance con il loro aiuto.
Quali sono i doveri dell’arte?
Credo che l’arte dovrebbe concentrarsi su poche cose. L’essere umano, la natura, il mondo su cui viviamo e l’universo delle emozioni che può nascere tra le persone. Allora il corpo diventa primario, i nostri pensieri modellano il nostro corpo, il nostro corpo interagisce con la realtà esterna ma la realtà è movimento continuo, cambia non è mai la stessa, cambia in base alla modalità di osservazione, cambia in base a come la si guarda. E non c’è niente di più attuale di un corpo che cambia e che viene segnato da un’esperienza.
Come scegli le tue modelle?
Le cerco ovunque, nel web soprattutto, su Instagram o Facebook. Sono sempre stupita dal fatto che molte sono proprio restie a partecipare. Voglio dire che tendo a dare per scontato che partecipino visto che praticamente vivono nelle vetrine social ma non è così. E’ assolutamente la cosa più difficile. Ed è ancora più difficile perché di solito scelgo ragazze, donne o bambini che abbiano qualcosa di simile a me. Per il progetto Aliens per esempio ho cercato a lungo una ragazza che doveva essere molto simile a me. L’ho trovata a Monaco in una ricerca lunga e difficilissima nel web. Poi l’ho incontrata e le ho chiesto di vivere una giornata con me prima dello shoot. Di solito tendo a scegliere figure algidamente emotive, che riescano a trasmettere tramite gli occhi, le mani, la bocca, che non siano teatrali ma che si muovano lentamente e sottilmente. Senza esagerazioni.
Secondo te oggi, per il tipo di performance che imposti, la fotografia è una scelta più coraggiosa o immediata? E perché?
Beh per il mio tipo di performance… mi piace che usi questo termine per le mie fotografie, lo trovo perfetto perché ogni mia fotografia è piena di me, il soggetto è come fosse me, lo lascio libero sotto la mia direzione. Per il mio tipo di performance fotografica direi che non è affatto immediata perché dietro ogni scatto c’è un lavoro concettuale e formale che dura giorni. Di immediato c’è l’accadimento durante lo scatto. Aspetto il momento giusto per scattare, come ho già detto altre volte io sono lì nella scatola del gatto di Schrödinger, sono vicino a lui pronta a scattare quando lui farà la sua scelta. La fotografia trovo sia una scelta espressiva molto coraggiosa. Il mercato dell’arte non è ancora pronto. La mia strada però è questa, voglio scavare in questa crepa. Naturalmente non mi riferisco alla fotografia documentaristica. Parlo di fotografia come oggetto d’arte. Quando la realtà ormai supera l’arte non ha senso fare fotografia d’arte documentaristica. Per me ha senso usare la fotografia come un qualsiasi altro strumento, va utilizzata al massimo, io la immagino sempre come uno still frame, come se facesse parte di un lungo film. Perciò anche la fotografia ha bisogno di tecnica ed esperienza. Ma quello che pretendo dalla mia fotografia è che sia forte, pulita, empatica e senza compromessi.
Invece il progetto Aliens?
Aliens è un lavoro sulla carne e su un altro corpo. Sulla trasformazione della carne e sul suo ricrearsi mentre la fotografo. E’ un progetto che ha a che fare col nudo semplicemente perché la carne è nuda. Con Aliens ho provato esattamente a fotografare l’attimo della scelta di cui parlavo prima, ho preparato tutta la location nei minimi dettagli, ho preparato la modella poi l’attimo prima di scattare le ho dato piena libertà. Allora lei è corsa in bagno sotto la doccia, è tornata, ha preso la tazzina del suo caffè, mi ha guardato un secondo e ho scattato. La trasformazione, la metamorfosi era già avvenuta. Ancora una volta quella che viene fuori non è la donna indifesa, inerme, fragile, perché nuda, ma il corpo come incarnazione della “potenza” della forza insita in esso. Non più oggetto ma soggetto. Non c’è voyerismo. Tutt’altro, è l’osservatore che viene scrutato o al limite potrei dire che partecipa. E allora Aliens è qualcosa di estraneo a noi che nasce da dentro di noi e ciò che di interamente umano rimane non è altro che la tazzina e il gesto che l’accompagna simulando umanità.
L’ultima opera a cui stai lavorando si intitola 49Dolls, di cosa si tratta?
La serie 49 Dolls esplora i limiti del mondo infantile quando questi limiti si scontrano con la forza inconsapevole ancora chiusa nel corpo che si trasforma. L’infanzia è un mondo ricco di immagini molte delle quali rimangono sopite durante il passaggio alla nostra fase adulta ma che è possibile tirare fuori. La figura del bambino o dell’adolescente viaggia di pari passo con la trasformazione del corpo, che si presenta veloce e istintiva. Oggetti del nostro piccolo mondo hanno un peso nella nostra vita a volte anche eccessivo. 49dolls parla della ribellione, del bambino libero, del coraggio e della paura.
Quanto è importante il cinema nel tuo percorso artistico?
Il cinema è la parte del sogno nella mia vita. Avevo 14 anni quando ho visto “Il vangelo secondo Matteo” e “Il settimo sigillo” e quelle immagini in bianco e nero, dure ma vere mi hanno sicuramente segnato, soprattutto nella verità, nella responsabilità di andare a fondo nelle cose. E’ stato il mio primo amore. Credo che se ne colgano sprazzi in tutti i miei lavori (in particolare nella serie Aliens) anche se stranamente non direttamente dai miei film preferiti. Mi accorgo sempre di più che registi che ho seguito con meno assiduità hanno evidentemente depositato più visioni in profondità. Penso alle analitiche estasi di Dreyer, ai primissimi piani di Bergman che ti lasciano senza fiato, alla sua solitudine e al suo silenzio, alla scena iniziale e finale di “Sentieri selvaggi” del Ford più classico, questa scena per esempio è per me indelebile, i miei primi lavori nascevano dal buio verso la luce, cosa c’è di più libero di una porta che si apre e di una che si chiude? E’ tutto nella prospettiva. Poi penso alla natura selvaggia di quasi tutto Herzog, o al Ferrara nero e intimo di “The Addiction”, ma anche all’intimismo politico di Fassbinder e alla sua imperterrita lotta disperata, all’ Hitchcock perfetto della “Finestra sul cortile”, al brillante lirismo e poesia di “Manhattan”, alle epopee visive di Tarkovskij, al primissimo Tarantino, prima che iniziasse a rifare se stesso, forse anche ad alcuni momenti lirici della prima Ana Lily Amirpour. Poi tutto questo DNA fuori controllo si è nel tempo centrifugato e in qualche modo pian piano si è distribuito nel mio lavoro e continuerà a farlo.
Come intendi la tua arte?
Mi piace vedere le mie fotografie come dei possibili still-frames di un film, la mia narrazione si nasconde prima e dopo l’immagine. Inoltre credo che il cinema vada di pari passo con la realtà, nel senso che la realtà, la vita vera è un film che non potrà mai essere scritto e girato meglio, e il cinema è la parte onirica, il sogno. Come arte allora per esempio trovo che non abbia senso fare arte documentaristica, a quella ci pensano i fotografi di reportage, non ha senso forse nemmeno fare cinema perché in quel caso si tratta di cinema appunto. Ma nello stesso tempo facendo arte bisogna ben tener presente i grandi apporti del cinema e della realtà, e non ha senso fare arte che è già stata superata dalla realtà o fare cinema che non aggiunga altro alla realtà. E’ davvero molto complicato.
Chi ti ha ispirato e continua ad ispirarti per il tuo lavoro?
Oltre al Cinema come detto prima, direi molta letteratura, le visioni sulle derive umane senza compromessi di Konrad, le atmosfere magiche e da sogno di Marquez, le feroci sciabolate nell’anima di David Foster Wallace, Joyce con la sua interminabile epopea quotidiana. Per quanto riguarda l’arte invece Beuys mi ha sempre affascinato con la sua capacità di essere semplice e austero nello stesso tempo. Vorrei riuscire a fotografare un corpo come fosse una delle pietre di Beuys, universale, ferma, silenziosa. Tra i pittori Hopper è uno dei miei preferiti, anche lui per me è onirico, le lande desolate che si affacciano dalle sue finestre, le figure piccole in attesa. Ammiro molto Jaar (che è stato il mio visiting professor alla Ratti) per la riflessione capillare sul sociale e per il forte senso di responsabilità che consegna all’arte. L’artista deve avere il coraggio di fare una piccola rivoluzione, di rispondere con l’arte, con la musica alle problematiche della società. Deve come il cinema cavalcare il sogno e proporre delle soluzioni. Tra i fotografi invece direi la fotografia di Elina Brotherus e il lavoro sul suo corpo, lo trovo in generale molto coraggioso e vero, mi piace la sua rabbia e la sua solitudine e il non aver paura di gridarla nella sua terra silenziosa. Mi piacciono molto anche i suoi colori. Resto affascinata dalla ricostruzione e dalla messa in scena di Jeff Wall o Hannah Starkey. La loro meticolosità nel costruire il set nei più piccoli dettagli e la collaborazione con più soggetti per ottenere il risultato finale sono per me un incentivo a formare meglio la realtà che invece io fotografo.
Mi piacerebbe avere una tua opinione riguardo questa pandemia che ci ha colpito e come sta influendo sul tuo lavoro.
Credo che questo virus abbia avuto il potere di portarci un po’ allo scoperto. All’inizio sembravamo tutti uniti nella lotta contro qualcosa di così grande e superiore a noi. Poi sono emersi i “cattivi sentimenti” e la natura forse egoista dell’essere umano. Il senso di comunità è stato intaccato fortemente. L’individuo ora è quasi tentato a chiudersi in casa a non contaminarsi con gli altri della sua specie. E’ quello che ci hanno fatto credere fosse giusto in fondo. Va bene allora come sempre il concetto di comunità, il far parte di un gruppo sociale esteso, è tutto ok ma non bisogna tralasciare l’individuo. L’individuo va rafforzato altrimenti quando la comunità verrà disgregata, come in questo caso, apparirà minacciato. La realtà è movimento e incertezza, ma è in questo stato di incertezza che l’individuo può scegliere di divenire forte; allora la dimensione privata, la solitudine può diventare luogo di non-debolezza, la base per costruire una società che non ci deframmenti ulteriormente nella sua digitale dimensione partecipativa. La questione è decisamente molto complessa, ho a questo proposito contribuito con le mie foto al film-documentario del regista Tamal Mukherjee, “Insight” (2020/2021) per la CNA . Durante il lockdown di marzo a Monaco di Baviera ho scattato ogni giorno fotografie in giro nella città desolata mi sentivo un po’ come nel libro Dissipatio H.G di Guido Morselli. C’ero solo io e la città, era una bellissima sensazione nonostante tutto. Il mio lavoro ne è molto influenzato, questa situazione pandemica sta ponendo l’attenzione su quelli che sono i temi della mia ricerca, la solitudine, la forza dell’individuo, la dimensione virtuale ma anche sociale. Ho appena iniziato una serie di video: “Freezdom” http://caterinanotte.com/freezdom.html in questa serie chiedo alla persona (donna, ragazza, bambina) di provare a liberarsi, a dimostrarmi quanto si sente libera. Sarò un’osservatrice pura del senso di libertà, della consapevolezza della propria libertà e della capacità di usarla. La libertà deve essere un loop, un ballo continuo e senza interruzione, una colonna sonora imprescindibile della vita. Freezdom è la libertà congelata in un attimo che si espande all’infinito. Sono curiosa di vedere cosa succederà. L’arte deve immergersi e rinascere dalla realtà ed è quello che tento di fare.
In apertura, immagine dal progetto “49Dolls” di Caterina Notte.