La creatività di Enzo Bollani (Milano, 3 maggio 1981) è straripante: Enzo è un promotore del bello a tutto tondo che ha fatto della sperimentazione la sua cifra stilistica. Camaleontico autore e compositore di musica, è grafico affermato, collettore di progetti imprenditoriali innovativi e figura chiave nella Milano del design degli ultimi anni. È lui il deus ex machina dietro l’esperienza di successo Bollani Biciclette, il marchio di bici di lusso amato dalla moda.
Ha collaborato con Lucio Dalla per 15 anni, alternando attività di redattore, assistente alla regia e infine direttore di produttore per alcuni tra i più prestigiosi eventi televisivi italiani ed europei. Collaboratore di Bibi Ballandi, nel 2003, dagli spazi di Orea Malià di via Marghera, a Milano, ha aperto la prima web TV d’Italia in grado di trasmettere in diretta: Buenos Channel.
Ha collaborato a numerose produzioni teatrali e musicali con il giornalista Franco Nisi e con Mike Bongiorno e nel 2011, su suggerimento di Lucio Dalla, trasformò il proprio studio di design, collocato in un avveniristico attico milanese nell’allora nascente NoLo, in una galleria d’Arte Contemporanea, chiamandola Musée du Croco.
Quando mi incontra per un servizio per The Way Magazine sulla sua storia personale e imprenditoriale, subito mi chiarisce: “Sono arrivato a un punto di voler raccontare la mia vita come mai ho fatto prima. Sono solo a livello sentimentale e ora ho le porte aperte, visto che ho 35 anni e il mio percorso mi permette di voler finalmente la condivisione. Tutto mi rallegra nella vita, non ho avuto nemmeno paura della morte, che ho incontrato per caso il mese scorso”.
Ricoverato in seguito a una grave pleuropolmonite a febbraio, il creativo milanese ora è salvo: “Sicuramente l’esperienza mi ha cambiato, al Policlinico poi ho trovato un’equipe fantastica, oltre ad avere potuto contare su una cardiologa bravissima, nel locale in cui sono stato colpito dal malore improvviso: Elena Callisto. Non finirò mai di ringraziare le persone che mi hanno salvato la vita: le due dottoresse Barbara Ferrari e la giovanissima Sara Arcudi, oltre al dottor Domenico Madonna, specializzando in Psichiatria, autore tra l’altro su scienzelive.it, dove scrive pezzi giornalistici di rara sensibilità. Queste persone, soltanto in 11 giorni, mi hanno dato gli strumenti e la forza per rialzarmi da questo incidente di percorso. In parte è anche grazie a loro se ho deciso di tornare all’università, dove penso opterò per Psicologia”. Perché Enzo, negli anni 90, Sociologia l’aveva scelta per affrontare temi che lo interessavano. Poi il lavoro è decollato, è bastata una chiamata a Mtv e ha lasciato Urbino per rientrare a Milano. Vediamo cosa è successo.
Quella chiamata nel 2003 per direttore di produzione ti ha dato una nuova opportunità di carriera. Cosa avevi fatto prima?
Mi definisco un jazzista, perché sono un improvvisatore e sono alla ricerca di ordine. Sono un creativo, nasco come musicista, anche se sto imparando soltanto adesso a leggere il pentagramma. Del resto nemmeno il mio amico Lucio Dalla sapeva farlo, mentre l’altro mio faro, Gianni Bella, è un autodidatta completo. Questo per dirti che ci sono vari modi per approcciarsi alla musica, e a produrla.
Sei un istintivo?
Imparerò di continuo, per una serie di circostanze non ho mai avuto tempo di essere giovane. A 16 anni, a Bologna, sono entrato in contatto tramite un progetto di Pupi Avati con Lucio Dalla. Mi è cambiata la vita. Lucio mi influenza ancora e, in qualche modo, mi dà segnali. Succede spesso, con intensità diverse, ma sempre in modo poco equivocabile. Non era il mio padre putativo, piuttosto il mio fratello maggiore e minore, a seconda dei casi. Molto di più che un amico.
Porti questa croce di San Domenico sempre con te. È sua?
Sì ed è strana. Da un lato ha un errore di smalto che la fa somigliare a una specie di Tao. Quindi è difettosa quanto il proprietario attuale, che sarei io. L’altra particolarità è un segno di amicizia consegnatomi da Dalla, dopo un paio d’anni di esperienze di lavoro insieme nel 1998. Era notte fonda ed eravamo andati al chiostro di San Domenico a Bologna. Lui poteva fare qualsiasi cosa. E non è detto che abbia smesso.
Da musicista a grafico e designer. Cosa è la creatività per te?
La mia testardaggine nei confronti dei miei genitori adottivi a permettermi di frequentare una scuola milanese sperimentale di grafica, la Progetto ’92 ideata da Craxi, mi ha fatto capire che era quello il mio mondo. Ero un creativo già quando ho iniziato a lavorare per la Ballandi, dietro le quinte degli show tv di Adriano Celentano come redattore, avevo 18 anni. Non è stata una carriera continua ma sempre in movimento, in trasformazione.
Cosa ti resta di quell’esperienza?
Quando Celentano ti stringe la mano senti che c’è qualcosa di speciale. È un fuoriclasse, lui può permettersi di non tenere il tempo, quando interpreta le canzoni che scrivono per lui e, forse per questo, ha vinto sul tempo. Lui è musica, è provocazione, un istintivo che fa polemica e scuote, dicendo cose scomode. Adriano è la voce dei semplici che si meriterebbe dimensione mondiale. Peccato lo abbia penalizzato la sua paura dei voli. E comunque è un idolo anche all’estero, pur non essendoci andato, se non in treno.
Poi sei passato a lavorare con Toto Cutugno, altro divo internazionale.
Legato a Celentano, con cui ha lavorato nella fine degli anni 70 quando Adriano era più concentrato sul cinema e musicalmente era in down. I grandi artisti sono così, hanno i cicli, come Madonna, che ammiro e che vedo continuamente scendere e risalire. Questo succede perché gli artisti, e questo è quello che ho imparato dalle mie frequentazioni, si espongono a dei rischi anche imprenditoriali. È questo quello che li fa amare del pubblico. I difetti. Credo che tutti amiamo più Paperino, che la perfezione ostentata di Topolino.
Di Cutugno che dici?
Che forse è il più sottovalutato tra gli idoli popolari. Quando vado in giro con lui succedono cose che nemmeno con Dalla succedevano, eppure io l’ho frequentato dopo i 50 anni, quando era al picco della sua rinnovata fama. Toto è voluto bene, i russi lo sanno. I media italiani se ne accorgeranno troppo tardi. Forse il suo carattere schietto e permaloso non l’aiuta in vita, ma ha avuto momenti di riscatto, come il passaggio a Sanremo con il Coro dell’Armata Rossa, nel 2013. Io c’ero, tanto per cambiare.
Hai cantato cover di Celentano e tuo repertorio inedito spesso in Germania. Come ti senti da performer?
Sto incidendo un nuovo disco e voglio scoprire altri talenti. Lucio Dalla mi voleva a tutti i costi convincere ad andare a Sanremo, nel 2002, ma io avevo la certezza di essere poco pronto a quell’esperienza. Mi avrebbe scritto tutto lui, e c’era una canzone già pronta all’uso. Sarebbe stato lo stesso percorso di Luca Carboni, per il quale la sua mano si sente pesantemente nei primi dischi. Però ho fatto house concerts all’estero lo stesso con altri progetti, molti. Ed è così che ho conosciuto Giovanni Caccamo, che è molto bravo in questo e che ha ancora tutto da giocare, sperando possa tirare fuori tutto il suo potenziale, nei prossimi anni.
La tua carriera è un’alternanza di on stage e dietro le quinte. Cosa preferisci?
Sono una sorta di timido, forse mi deriva dal fatto di non essere stato voluto. Persino respinto, per due volte. Mia madre, una pittrice molto brava, l’ho cercata e ritrovata anni dopo, e la sua vita era distrutta, perchè mi avevano strappato a lei, ingiustamente. Mio nonno era un pittore molto noto: Georges Secan, tra i migliori esponenti dell’Astrattismo e, per gioco e per amicizia con Farah Diba, ritrattista di re Farouk, ma anche di molti divi di Hollywood, specie dopo essersi stabilito a Montecarlo. Una famiglia dove l’arte si respirava ma dove i legami affettivi erano complicati, compromessi. Sono stato cresciuto da una nonna a Taggia, madre di mia madre adottiva, con la quale non ho alcun rapporto, vicino Sanremo, ed è lì, in Liguria, che mi sono formato.
Parlami di questa vicinanza, non solo geografica, al Festival di Sanremo.
Sanremo per me fin da piccolo era il mio capodanno. Lo aspettavo con trepidazione per vedere le nuove scenografie, ogni anno. Per me, architetto mancato, erano estremamente rappresentative delle tendenze che avremmo trovato durante l’anno. Per come è organizzato e per come si colloca, nel primo trimestre dell’anno, è il bilancio di tutte le discipline sociali e artistiche italiane. E stabilisce anche il mood per l’anno in corso. Cattura le pulsazioni di una nazione, in una settimana. E io mi cibo di questo, oltre al fatto che ogni anno, per un motivo o per l’altro, mi ritrovi sempre lì, con impegni diversi.
Ci sei stato più volte, giusto?
Sì, quando Lucio scrisse un pezzo per Ron, Un Porto Nel Vento, io ero lì. Quando c’era Madonna con Vianello, io ero lì.Sono stato persino corrispondente, per i russi, così come per una radio web romana, gestita da disabili: Radio Finestraperta. Ovviamente oltre agli impegni con Radio Italia, con la RAI e con i vari artisti con cui ho collaborato. Ho anche organizzato due mostre, patrocinate dal Comune di Sanremo. La prima, nel 2012: Fiori e Coccodrilli.
Oggi sei conosciuto per il marchio di bici di lusso che porta il tuo nome. Come hai iniziato?
Era il 2013 e avevo fatto una mostra a Milano, legata al mondo della velocità a scatto fisso, sotto l’egida del Musée du Croco, la mia galleria, e chiamandola “Sono in Fuga”. Dalla mostra poi ho iniziato a fare feste nel circuito dei loft privati, con quel nome. Le biciclette sono venute fuori dalla mia passione per le quattro ruote e si ispirano all’Automobile. Ora me le chiede anche Philipp Plein.
Cosa? Gli hai fatto una fornitura?
Sì perché lui era venuto a conoscenza del mio marchio quando ero al Festival del Cinema di Venezia con Ciak, lo scorso settembre. E in pochi giorni gli ho prodotto delle bici, che ho chiamato Saltacross, per il suo fashion show a Milano, Alice in Ghettoland. Ora fanno da sfondo a tutta la campagna pubblicitaria con Fergie. Da lì sono passato a fornire macchine e altri motori roboanti, come l’elicottero personalizzato nella sfilata di gennaio. Non sono un esecutore, prendo accordi con lo stilista e personalizzo l’oggetto nella maniera più adatta, anche con molta libertà e autonomia.
Plein è il nuovo divo del fashion?
Per ora è sicuramente un fenomeno che funziona, bisogna capire come si evolverà. A lui sta stretto il ruolo di semplice stilista, deve fare di più. È già un creativo molto evoluto, deve fare il salto in altri ambienti per diventare colossale. Ha anche alle spalle una solida situazione finanziaria, che non guasta.
Il tuo ultimo progetto sono le stampe Ultramobile. Come ti è venuto in mente?
Ho pensato di unire la mia passione per i motori, con l’arte, la musica e l’architettura e mi sono inventato queste stampe e questi accessori di arredamento. Ci sono citazioni di Giò Ponti, Mario Bellini, la Fiat 500. Produzioni ad hoc, che potrebbero anche sfociare in una mostra. Rivisitate a modo mio, con dei particolari in evidenza e con uno sviluppo futuro che le vedrà alla base di una rivista. Devo ringraziare Lucio Dalla anche in questo. Anni fa mi presentò Dino Gavina, fondatore di Simon Gavina, una storia di industrial Design di grande spessore nel patrimonio culturale italiano. Ho attinto anche da quell’incontro ma, a differenza di Gavina, non posso scambiare qualche parola con Picasso, con Man Ray e con i fratelli Castiglioni. Vivo nel 2017, con una valigia di esperienze a dir poco incredibile, ma ancora cerco la mia collocazione, una risposta al perchè io debba essere qui.
Fotoservizio: Enzo Bollani a Milano di Christian D’Antonio per The Way Magazine
Outfit: giacca Bollani Biciclette, camicia Paul Smith, scarpe Reebok, occhiali Italia Independent.