Non c’è solo la straordinaria avventura americana di Salvatore Ferragamo, il “calzolaio” delle più famose dive di Holliwood degli anni 20, nella mostra “L’Italia ad Holliwood” attualmente in corso al Museo Ferragamo di Firenze. C’è anche una approfondita rievocazione dell’immigrazione italiana in America con una attenta disanima dell’influenza che tanti di quegli uomini e donne ebbero sullo sviluppo di quella giovane nazione, non solo economico ma anche culturale.
Partendo dalla registrazione audio che Salvatore Ferragamo aveva inciso come traccia per la sua autobiografia, sostenuti dalla ricerca condotta in America dalla studiosa Catherine Angela Dewar con la storica Elvira Valleri, i curatori hanno focalizzato l’attenzione sul mondo dell’arte, dell’artigianato e dello spettacolo, evidenziando, in particolare, l’impronta impressa dagli immigrati italiani sulla nascente industria cinematografica. Anche perchè lo stesso Ferragamo nella sua biografia ‘Il calzolaio dei sogni’ ha scritto “di intravedere un parallelo tra l’industria cinematografica e la mia attività… quando le major superavano la fase iniziale per ingrandirsi e crescere, il mio negozio seguiva la stessa traiettoria”. Infatti così cominciò l’avventura americana del giovane, undicesimo di 14 figli di un poverissimo paese dell’Irpinia che non offriva nessuna prospettiva: con un negozio di riparazioni e scarpe su misura aperto a Santa Barbara, in California, dove si erano trasferiti tre dei suoi fratelli.
Sfruttando la sua esperienza di giovanissimo aiutante di un calzolaio napoletano che lo aveva iniziato all’arte del lavoro artigianale Ferragamo mise a frutto le sue capacità manuali in un campo in cui ormai imperava la catena di montaggio. Grazie alla sua versatilità divenne famoso per la realizzazione dei cowboy boots e di calzature per le produzioni di lungometraggi western e in costume dell’American Film Company. Proprio da questo negozio, infatti, comincia la collaborazione con il mondo del cinema, in particolare con alcuni dei più famosi registi del tempo, David Wark Griffith, James Cruze, Raoul Walsh e Cecil B. DeMille; per i loro film Ferragamo realizza le calzature di protagonisti e comparse, guadagnandosi la stima della buona società californiana. In pochi anni il giovane italiano diventa uno “shoemaker” e uno “shoedesigner”, come lo definisce la stampa americana, raggiungendo ben presto fama e notorietà. E quando l’industria cinematografica si trasferisce a Hollywood, Ferragamo la segue e inaugura un nuovo negozio in Hollywood Boulevard, l’Hollywood Boot Shop.
L’immagine molto italiana del locale, in stile rinascimentale, con specchi, chandelier, moquette, arazzi, sofà e poltroncine affascina la buona socieà e le star più celebri del tempo: Mary Pickford, Pola Negri, Charlie Chaplin, Joan Crawford, Lillian Gish e Rodolfo Valentino, con il quale instaura rapporti non solo di lavoro ma anche di amicizia e quotidiana frequentazione. Per arrivare a star del livello di Greta Garbo, Haudrey Hepburn, Ava Gardner, Matylin Monroe, Katherin Hepburn, Sofia Loren.
Ma Ferragamo non si limita a curare l’immagine: alla ricerca della scarpa perfetta, non solo esteticamente, si mette a studiare anatomia umana, ingegneria chimica, e matematica all’Università di Los Angeles. I suoi studi lo portano ad aggiungere alle misure tradizionali anche la lunghezza della pianta e il volume del piede e ad ideare e brevettare un sostegno per l’arco plantare anticipando conquiste della odierna medicina ortopedica. Spiega che “dando appoggio all’arco plantare” vuole “permettere al piede di muoversi come un pendolo nell’Universo”.
Sua anche la “zeppa” , la suola che sostituisce il tacco slanciando gambe e caviglie di chi le indossa eliminando lo stress della posizione innaturale assunta dal piede con le scarpe fornite di tacchi a volte vertiginosi. E’ il primo a introdurre nella produzione delle calzature materiali poveri, che oggi rientrano nel concetto di ecologia, come il sughero, il filo di nylon da pesca e la rafia.
“Molti dunque sono stati gli spunti che hanno dato corpo alla mostra e che hanno offerto l’opportunità di soffermarsi sul fenomeno migratorio italiano in California nei primi decenni del Novecento, fino a farne il soggetto principale di questo progetto”, spiegano i curatori che l’esposizione intende sì riflettere sugli anni vissuti da Ferragamo in California (1915-1927) ma anche sull’influenza che le varie attività degli italiani e la loro cultura ebbero sulla società della West Coast, in particolare nell’architettura, nell’arte, nell’artigianato, nel mondo dello spettacolo e del cinema. Studio che evidenza come molti di quegli immigrati, ribellandosi all’immagine di “italiani-pizza-spaghetti-mandolino”, si sforzarono di perfezionare le loro qualità innate con lo studio e i mezzi che il paese metteva loro a disposizione.
Ma il nutrito staff di esperti che ha ideato l’allestimento della mostra su impulso della Fondazione Ferragamo ha curato con particolare attenzione anche l’inserimento della straordinaria creatività di Ferragamo nel clima e nel panorama culturale che permise a quella creatività di raggiungere livelli artistici nella realizzazione di quello che potrebbe essere semplicemente considerato un accessorio per rendere più comoda la vita. Ed infatti questa mostra, come le altre che l’hanno preceduta, oltre alle bellissime creazioni del “calzolaio irpino”, mette in risalto immagini artistiche dell’epoca in cui Ferragamo si formò ed operò: da Maccari a Giò Ponti, Rosai, Balla e De Pero, i cui echi si ritrovano nelle sue bellissime creazioni.
Il percorso espositivo si snoda in 8 sale che trasportano il visitatore in questo viaggio.
La mostra ha inizio con un grande dipinto della fine dell’Ottocento di Raffaello Gambogi, proveniente dal Museo Civico “Giovanni Fattori” di Livorno, che ritrae una famiglia italiana sulla banchina di un porto in attesa di salire su una delle navi dirette nelle Americhe alla ricerca di un futuro migliore.
Domina la sala la video installazione sulla Panama-Pacific International Exposition di San Francisco del 1915, esposizione in cui lo stile classico italiano è presente in tutti i padiglioni generali e in molti degli edifici rappresentanti i singoli Stati americani. Non è un caso che a vincere il primo premio su 110 padiglioni concorrenti sia stata la Cittadella Italiana di Marcello Piacentini, che convince e affascina nella sua intenzione di ricreare al di là dell’Oceano non un edificio ma l’atmosfera stessa di una città italiana. Numerose opere d’arte dell’epoca sono esposte sulle pareti.
La prima parte della mostra si chiude con un anticipo della sala successiva, la proiezione di alcune scene tratte da tre famosi film del muto a soggetto biblico e classico: Cabiria, uno dei più celebri kolossal della storia del cinema, diretto da Giovanni Pastrone nel 1914 e prodotto a Torino dall’Itala Film, con testi di Gabriele d’Annunzio e due produzioni americane, altrettanto note: Intolerance di David Wark Griffith del 1916 e I dieci comandamenti del 1923 con la regia di Cecil B. DeMille.
Da annotare che per quest’ultimo film Salvatore Ferragamo creò i sandali indossati dai protagonisti, dando inizio alla sua notorietà nel mondo del cinema. Il confronto tra queste produzioni, a cui allude anche il film dei fratelli Taviani, Good Morning Babilonia (1987), origine dell’idea curatoriale della sezione, testimonia l’interesse che il pubblico e il cinema americano ai suoi esordi dimostrò per le pellicole europee e, in particolare, italiane.
Cabiria, ai tempi della sua prima uscita negli Stati Uniti, fu reclamizzato come “The daddy of spectacles”, ossia il papà di tutti gli spettacoli e fu preso a modello per l’eccezionale ricchezza visiva, le forti ambizioni estetiche e alcune invenzioni, la lunghezza del film storico spettacolare, la macchina da presa in movimento, la luce diffusa.
Di Cabiria sono esposti locandine dell’epoca, fotografie di scena , i manifesti promozionali ed i costumi realizzati per i protagonisti dalla sartoria teatrale torinese Devalle, grazie al generoso contributo del Museo Nazionale del Cinema di Torino.
Proseguendo il percorso entriamo in una “make-up room” nella quale, in un ambientazione da set, fotografie, spezzoni di film, oggetti, abiti personali e raffigurazioni artistiche ci presentano quattro pesonaggi Italiani che ad Hollywood portano le qualità italiane più apprezzate: il fascino e lo stile. Enrico Caruso, Rodolfo Valentino, Tina Modotti e Lina Cavalieri. La Cavalieri, considerata la donna più bella dell’epoca, viene ritratta anche da Piero Fornasetti, in oltre 300 varianti sui suoi piatti di ceramica dei quali in mostra sono visibili 40 esemplari provenienti dalla collezione Fornasetti di Milano.
Cambiando sala vediamo le foto scattate da Manfredi Gioacchini giovane fotografo che vive tra l’Italia e gli Stati Uniti, che ha realizzato i ritratti in bianco e nero di italiani che lavorano oggi per il cinema di Hollywood. Sono costumisti, montatori, produttori, direttori della fotografia, sceneggiatori, attori, ciabattini delle star, tecnici degli effetti speciali, giovani o di esperienza, figure le cui vecchie e nuove professionalità contribuiscono come un secolo fa alla vita dell’industria cinematografica più importante del mondo.
Per continuare ad evidenziare come la nostra arte, cultura e l’artigianalità delle nostre maestranze, soprattutto toscane, hanno influenzato il cinema americano, sono messi a confronto fotogrammi del film del 1924 Romola, diretto da Henry King, con dipinti e sculture a cui si sono ispirati per la rappresentazione iconografica del film resa possibile grazie al sapiente lavoro di manifatture fiorentine che contribuirono a rendere più veritiera possibile la ricostruzione delle scene.
Una forte connessione tra presente e passato,viene creata nella sala con videoistallazione dedicata alla musicala nella quale si da spazio a tutti quei grandi italiani che hanno contribuito, in maniera significativa, alla nascita e allo sviluppo di generi musicali così come li conosciamo oggi. Approdiamo quindi, nei nostri giorni con un progetto di Yuri Ancarani che propone una video installazione girata a Zuma Beach, celebre location dove è stata girata la scena finale del film Il pianeta delle scimmie (1968), dove giornalmente si recano numerose persone che lì scattano selfie o si fanno fotografare.
La mostra si chiude con la presenza di Salvatore Ferragamo in California e il negozio che l’artigiano italiano aprì a Hollywood nel 1923. Quando Ferragamo si trasferì da Santa Barbara nel nuovo edificio, Hollywood era poco più di un paesino. Gli studios cinematografici erano pochi, piccoli e di scarse finanze. Le residenze sontuose si contavano sulle dita di una mano, quelle di Harold llyod, Mary Pickford, Pola Negri, Charlie Chaplin e Rodolfo Valentino.
Quando nel 1927 lasciò gli Stati Uniti tutto era cambiato. Gli studios erano diventati più numerosi e sfarzosi, le produzioni cinematografiche, il numero delle star e degli addetti al settore erano moltiplicati. Ferragamo osservò, comprese e partecipò ai mutamenti che stavano facendo di Hollywood uno dei luoghi dell’immaginario. Al suo arrivo in città scelse un locale in Hollywood Boulevard, che già vendeva scarpe con l’etichetta Hollywood Boot Shop. Non cambiò il nome, ma trasformò completamente l’arredamento, inserendo colonne classiche, mobili di fattura neorinascimentale e un grande divano in modo da creare un’atmosfera meno commerciale, più intima e dare all’ambiente l’aspetto di un palazzo italiano. Il negozio divenne in breve tempo un punto di riferimento di tutto il mercato che ruotava intorno all’industria cinematografica: le star più famose, ma anche le ballerine, le showgirl, i registi, gli attori e i produttori.
L’arrivo a Hollywood fu contrassegnato oltre che da un’intensa attività commerciale, attraverso il nuovo negozio sempre più legato alla sfavillante “traiettoria del cinema,” anche dal coinvolgimento diretto in attività culturali e di promozione artistica. Lo attestano le diverse iniziative che lo vedono protagonista di originali campagne pubblicitarie e l’avvicinamento al grande teatro dell’Hollywood Bowl, che vide negli spettacoli di questi primi anni venti la presenza del direttore d’orchestra Pietro Cimini, che sappiamo essere stato amico di Salvatore Ferragamo.
Possiamo supporre dunque che Salvatore Ferragamo legasse alla frequentazione degli studios cinematografici anche l’interesse e il piacere per il mondo della musica e in particolare dell’opera; si trattava di una rappresentazione teatrale assai apprezzata nelle comunità italiane. La musica fu infatti un’importante componente della socialità e i prominenti rappresentanti di queste comunità compresero rapidamente l’importanza dell’opera e la promossero come espressione culturale a carattere nazionale: si trattava di una rappresentazione dell’italianità che mirava a superare i regionalismi.
Salvatore capì l’importanza della musica e dell’opera, e affermatosi come shoemaker di successo, partecipò ripetutamente e in vario modo agli organismi che si costituirono per la realizzazione di una Opera Company come attesta un articolo di Cedric E. Hart sull’ “Hollywood Magazine” del 1926. L’importanza di questo executive committee è riaffermata in un successivo articolo dove troviamo, accanto a Salvatore Ferragamo tra i sostenitori dell’iniziativa, la soprano Josephine Lucchese, il maestro Pietro Cimini e il giovane produttore cinematografico della Metro Goldwin Mayer, Irving Grant Thalberg ed altri nomi della musica e dello spettacolo.
In questi roaring twenties Los Angeles mirava ad accreditarsi come un importante centro culturale ed economico. In tale contesto Salvatore Ferragamo divenne non solo il geniale artigiano che conosciamo, ma un convinto sostenitore dell’abbraccio possibile tra arte e industria, economia e cultura, contribuendo a trasformare Hollywood nella città che la stampa definiva «the Paris of America» e «the art center of the world». Basandosi su questi contenuti, la sezione si presenta come la scenografia di una rappresentazione teatrale che ha la finalità di coinvolgere il visitatore nel mondo magico di Ferragamo, esponendo alcune delle sue scarpe straordinarie, create in esclusiva per i protagonisti maschili e femminili del cinema americano. Sullo sfondo è la Hollywood degli anni Venti, tra il reale e l’immaginario, con i suoi protagonisti, evocata per ricostruire l’atmosfera e l’emozione di un luogo, che rappresentava in pieno la realizzazione del sogno americano.
Fotoservizio a Firenze di Camilla Di Biagio. Realizzato presso L’Italia a Hollywood, aperta fino al 10 marzo 2019 a Palazzo Spini Feroni
Piazza Santa Trinita 5/R, 50123 Firenze.
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