Giovanni Chiodaroli è l’executive chef del Love It, il ristorante in zona Missori a Milano creato da Marcello Meda. I suoi piatti, a dispetto della sua giovane età (28 anni), hanno già molta personalità e grande intuito per la riscoperta della qualità delle materie prime. Giovanni fa solo menù stagionali e predilige materie prime a chilometro zero. Abbiamo assaggiato sotto la sua guida delle carni e del tonno reinterpretati con creatività e fantasia senza essere snaturati. Una tartare di manzo con tuorlo d’uovo croccante (che a piacimento si può mangiare rompendo) è stata una fantastica entrata. Particolarmente memorabili i ravioli con ricotta di bufala e una punta di vaniglia e la melanzana fritta intera, con una resa ineguagliabile e non untuosa. L’esaltazione di ingredienti come l’olio pregiato del Garda fino alle diverse varietà di riso del lodigiano è un suo must. Uno dei piatti che esprimono al meglio la sua filosofia culinaria è la “Quaglia in carrozza”, ispirata all’omonima preparazione con la mozzarella, ma realizzata con la selvaggina farcita con fois gras italiano della Lomellina, panata con farina di grissini e fritta nel burro chiarificato.
Per finire il pasto, Giovanni Chiodaroli ha sfoderato il suo estro pasticciere con Mandorla di Noto, limoni di Amalfi e cremoso al basilico. Da Brescia, sotto la docenza di Massimo Nobili, chef e proprietario del famoso Nineteen19, è arrivato la scorsa estate a Milano al Love It. Gli abbiamo rivolto delle domande per conoscerlo meglio.
L’Italia detta legge nell’eno-gastronomia. A cosa non rinunci quando sei in cucina?
La carne di maiale, per tradizione. Il tonno che è un pesce molto importante per la nostra alimentazione. E la verdura che è alla base di ogni piatto che creo e cerco sempre di metterla in ogni piatto. L’Italia ha la più antica storia culinaria ed è importante andare alla macelleria di paese e dall’ortolano di fiducia e riscoprire la materia prima migliore.
In quale piatto si riconosce di più la tua creatività?
Direi il raviolo, sono grande amante di paste ripiene, oltre che mangiarle, le amo fare in maniera molto personale. Il mio piatto distintivo però è il maiale, la carne e la sua lavorazione, che è molto più difficile del pesce. Se hai il pesce buono e lo lavori poco ed è di qualità, il resto lo fa la materia prima. Come la mia ventresca di tonno che è giusto scottata. Mentre il maiale, che non è considerata una carne nobile perché si tende a usare tagli molto più pregiati, per me è 78×24 proprio come il nome del piatto che ho portato a Love It. Vuol dire 78 gradi per 24 ore di cottura. Con la carne c’è bisogno di più ricerca e dedizione e il risultato non smentisce.
Che influenza ha per te la cucina regionale?
Sono lombardo doc e la carne è la tradizione della mia famiglia, siamo stati grandi consumatori. Mio nonno faceva brasati spettacolari, il pesce si faceva la domenica. E per me è quella l’eredità.
Anche tuo nonno in cucina? In un’epoca necessariamente diversa..
L’uomo ormai è attraente in cucina, è una passione che dilaga e se la donna sta emergendo fuori casa, è anche normale sia così. È divertente che l’uomo stia riscoprendo l’abitudine di stare a casa e cucinare.
Che ambizioni hai?
Le ambizioni sono tante, ogni tanto penso al ristorante al messaggio che voglio trasmettere quando cucino. Alla fine parliamo di comunicazione, nel senso che è importante far arrivare quello che voglio dire, che la storia eno-gastronomica italiana ha ancora tanto da raccontare alla gente. Rispettando la tradizione e le materie prime.
Dove ti sei fatto le ossa?
Specialmente in Lombardia, ho lavorato in ristoranti molto ben frequentati a Varese e Brescia. Erano posti tradizionali e con l’ultima esperienza a Brescia prima di arrivare a Love It questa estate c’è stato anche l’incontro con la creativià. Ho visto un’apertura mentale combinata con la raffinatezza del luogo che mi ha molto formato. Mi hanno tutti insegnato il rispetto della materia prima, che è facile quando sei in un ristorante affollato dove i prodotti girano.
Da bambino come era il tuo rapporto col cibo?
Da bambino ho amato molto mangiare ma la cucina non era un sogno. Volevo fare il dentista, pensa! Ero molto incuriosito dal mondo della cucina e iscrivendomi alla scuola alberghiera ho fatto un percorso classico di una cucina di contenuto, ricette di piatti veri.
Hai 28 anni e per il momento sei lontano dal boom mediatico dei cuochi. Cosa ne pensi?
L’interesse degli ultimi cinque anni da parte dei media per la cucina non è stato condizionante per le mie scelte: è stata un’esplosione che ho visto mentre già lavoravo. Il mondo della ristorazione come viene proiettato in tv ovviamente non è necessariamente reale. Però considero positivo il far scoprire al pubblico il lavoro che c’è dietro e la ricerca del giusto ingrediente. Crea più consapevolezza e questo è un bene.
Che tipo di esposizione vorresti?
Ci vuole misura. Non farei qualcosa di mediatico ora, non mi sento pronto anche se nel 2016 so che fa parte del curriculum di una persona che fa questo mestiere.