C’è un’immagine che, da alcuni giorni, giganteggia a Roma sulle arcate del Colosseo e la facciata del Campidoglio. È il ritratto di un vispo ottantenne: barba bianca, sorriso coinvolgente, sguardo magnetico che sembra dire ai passanti: “A me gli occhi, please!”. È Luigi Proietti, per gli amici e per tutta Italia Gigi, per dirla alla Verdone “l’ultimo volto del tipico romanaccio de ‘na vorta”, morto lo stesso giorno in cui era nato 80 anni prima, il 2 Novembre, giorno della Commemorazione dei Defunti (“Lo so, ma non è colpa mia!”, amava ripetere). Una vera mandrakata!
Ebbi la fortuna di conoscerlo vent’anni fa, ad una festa di compleanno di un’amica delle sue adorate figlie, Carlotta e Susanna. Lui reduce dall’enorme successo della fiction Rai “Il Maresciallo Rocca”, in onda dal ’96, io giovane attore in erba con pochissima esperienza ma con tanta voglia di imparare. Lo raggiunsi al bancone del locale, dove si era appartato, e con la sfrontatezza dei ventenni attaccai: “Maestro, lei non si ricorda ma noi ci siamo incontrati quattro anni fa nel suo camerino, al Teatro Augusteo di Napoli, al termine del suo spettacolo su Petrolini”. A questo nome gli si illuminarono gli occhi e cominciò a parlarmi del suo amore per quella maschera romana della quale si sentiva – a ragion veduta – l’ultimo erede. E così, tra un bicchiere e l’altro, partì una lunga conversazione durante la quale cercai di estorcergli il più possibile i segreti della sua arte. Il fatto è che di segreti non ne aveva. La sua grandezza, in effetti, risiedeva proprio in questo: non solo far dono della propria arte al suo pubblico, ma anche del proprio tempo ad un giovane attore sconosciuto. Una vera e propria lezione gratuita di disponibilità e generosità, oltre che di teatro. Lui che i giovani li ha sempre amati e incoraggiati da quando, nel ’78, aprì il suo Laboratorio di Esercitazioni Sceniche, nella sala del Brancaccino. Mai nessun attore è stato scopritore di tanti talenti: Massimo Wertmuller, Flavio Insinna, Nadia Rinaldi, Pino Quartullo, Rodolfo Laganà, Enrico Brignano e tantissimi altri. Proprio quest’ultimo, domenica sera a “Che Tempo Che Fa” aveva omaggiato “il mio maestro, Gigi Proietti, che sta per compiere 80 anni”. Erano già pronti i festeggiamenti e le celebrazioni. Nessuno poteva immaginare che dopo poche ore…
Forse amava tanto i giovani perché lo riportavano coi ricordi ai tempi dei suoi esordi con la Compagnia amatoriale degli Universitari (si era iscritto a Giurisprudenza per accontentare il padre ma non si era mai laureato, perché rapito dalle scene). I tempi del cabaret, dove anche una barzelletta (“18,18,18” o “Il Cavaliere Nero”, ad esempio) nelle sue mani diventava un esilarante pezzo teatrale. I tempi del piano-bar, col “contrabbasso cor botto”, che nel ’95 avrebbe celebrato a Sanremo con la bellissima “Ma che ne sai… (se non hai fatto il piano-bar)” con Peppino Di Capri e Stefano Palatresi. I tempi del teatro d’avanguardia, con Carmelo Bene e Antonio Calenda, nelle mitiche Cantine Romane, prima della consacrazione al Sistina. Nel tempio della commedia musicale arrivò, quasi per caso, nel ’70. Garinei e Giovannini erano disperati perché, a pochi giorni dal debutto di “Alleluja, Brava Gente!”, Domenico Modugno – che ne aveva firmato le musiche e doveva esserne il protagonista insieme a Renato Rascel – diede forfait, in seguito a un contrasto con la produzione. Chiamarono Proietti e lo misero in prova per tre giorni. Il successo fu clamoroso. E poi, lo spettacolo suo per eccellenza, scritto con Roberto Lerici, suo sodale per lungo tempo, “A me gli occhi, please!”, nel ’76, nel glorioso Teatro Tenda, ripreso più volte durante tutta la sua carriera. Per la prima volta il pubblico assisteva a un one-man-show, senza scenografia, con solo una casacca bianca addosso e il classico baule dell’attore. Impossibile ricordare tutti gli spettacoli, ma vale la pena sottolineare che, sempre, ha voluto coniugare la cultura alta con quella popolare, anche nella scelta dei titoli. Indimenticabile la commedia musicale “I Sette Re Di Roma”, dell’88, in cui interpretava dodici ruoli!
Proficuo anche il suo impegno al cinema. Tra i film ricordiamo “Brancaleone alle Crociate” di Monicelli, “Dropout” di Tinto Brass, “La Tosca” di Luigi Magni e il cult “Febbre da Cavallo” di Steno, del ’76, cui avrebbe fatto seguito “La Mandrakata” dei Vanzina nel 2002. E poi l’indimenticabile Mangiafuoco nel “Pinocchio” di Matteo Garrone nel 2019 e “Io sono Babbo Natale” di Edoardo Falcone, in uscita quest’anno. Ma il Cinema lo ricorda anche come grande doppiatore delle maggiori star di Hollywood e di tanti lungometraggi Disney. Sua la voce di Stallone nel primo Rocky, con quell’urlo sofferto e liberatorio, quell’ “Adriaaaaanaaa!” che è diventata una delle battute più citate della storia del Cinema.
Eppure, non fu solo gloria. Come quando, a metà anni Novanta, fu costretto a chiudere la sua amata scuola per effetto dei tagli alla Cultura e allo Spettacolo (i primi di una lunga serie che ci affliggono ancor oggi). E poi, qualche anno dopo, forse lo schiaffo più amaro: il decadimento da Direttore Artistico del Teatro Brancaccio, che lui aveva praticamente rifondato con il “Gaetanaccio” nel ’78, a favore di un noto personaggio televisivo che col teatro aveva poco a che fare. Ma la perseveranza nel difendere la sua idea di commistione di cultura alta e popolare lo portò, nel 2003, sotto la giunta Veltroni, a realizzare la sua ambizione più grande: inaugurare un teatro in perfetto stile elisabettiano, il “Globe Theatre”, nel pieno centro di Villa Borghese, in cui offrire ai giovani gli spettacoli del suo adorato Shakespeare, interpretati da compagnie di giovani. Lo stesso teatro che ha ospitato, col suo feretro, il suo ultimo ingresso in scena. Il teatro che da domani porterà il suo nome.
Testo di Davide D’Antonio