Sarà che in tempi di lockdown sembra tutto più bello quello che abbiamo perso, ma sicuramente una reazione così veemente Daniele Dodaro di Squadrati non se l’aspettava. Per aver pubblicato un quadro semiotico che definisce la natura dei quartieri di Milano, si è visto arrivare una pioggia di commenti online, complimenti, ringraziamenti, anche critiche. La gente di Milano nel 2020 ama la propria città. La semiotica è la scienza che studia i fenomeni di significazione, e quindi per necessità categorizza le appartenenze. Ma un senso d’appartenza alla propria “zona” in una città come Milano è davvero cosa nuova. Si è sempre detto che è un luogo di nessuno, di passaggio, più incline ai city user che vicina a chi ci abita stabilmente. Ma dopo i fenomeni di NoLo, Isola e Porta Venezia, diventati autentici brand di lifestyle, con fama che travalica anche i confini cittadini, la demografia e l’affezione a tutto ciò che è Milano sta radicalmente cambiando.

Daniele, cosa ti ha spinto a indagare sul rapporto dei quartieri di Milano con le persone che li popolano?
Notavo un senso di appartenenza nascente e nella sua semplicità ho pensato che la ripartizione spiegasse le cose in maniera chiara. Sono da 10 anni a Milano, ho fatto tante analisi con Squadrati, un gruppo di ricercatori di mercato e di approcci metodologici non convenzionali, su Milano, i suoi locali, i suoi blog, ristoranti, e le reazioni ad Area C, alla riapertura dei Navigli. Dopo aver creato una social street, era venuto il momento di fare un quadrato semiotico dei quartieri di Milano.
Cosa ti fa capire che una ricerca come questa funziona?
Se non mi fa effetto chiarezza non la pubblico. In questo caso si è trattato di un quadrato semiotico che è un po’ “dimmi dove abiti e ti dirò che tipo di quartiere è”, ma forse anche una mappa per girare Milano, ora che in Fase 2 le tangenziali sono le nostre colonne d’Ercole.
Che categorie hai individuato?
Ci sono i Quartieri Dormitorio, con scarso senso di comunità tra i residenti e non molto frequentati dai non-residenti e i Quartieri Vetrina, con scarso senso di comunità tra i residenti ma molto attrattivi per i non-residenti, che frequentano questi quartieri per lavoro o per piacere (shopping, fare serata ecc). E poi ci sono i Quartieri Borgo, vissuti dagli abitanti del quartiere e con un forte senso di comunità, ma non molto frequentati da chi non è di quelle parti; e infine i Quartieri Community, vissuti dagli abitanti del quartiere e allo stesso tempo attrattivi per i non-residenti.
Come hai scelto i riferimenti a cui legare la ricerca?
I parametri li ho scelti per la ragione di pertinenza: coesione di una comunità e attrattiva per chi non fa parte di un quartiere specifico. C’è chi preferisce parcheggiare la macchina ed essere contento.
Ti sei avvalso delle esperienze di local heroes e attivisti della città. Ce ne vuoi parlare?
Molto preziose sono state le testimoniane di Davide Agazzi, esperto di innovazione e imprenditoria sociale e Davide Fassi, docente al Politecnico che tanto si spende a NoLo per iniziative di urbanismo tattico. C’è poi il contributo di Federica Verona, che è un’urbanista che ha promosso Super, il festival delle periferie, una donna che ha quindi conosciuto realtà asosciative. Isabella Musacchia, storyteller delle città, Marco Mazzei, un autore di digital content, e Roberto Arsuffi di UrbanFile.

Come si vivono i quartieri oggi a Milano?
Anzitutto si chiamano ‘zone’, le persone si riferiscono alla propria ‘zona’. C’è l’aspirazionalità, molta identificazione, basti pensare ai local heroes che sono dei veri influencer di quartiere. Forse la presenza di persone di provenienze diverse spinge gli abitati a voler ritrovare quella comunanza da paese che si perde quando si arriva qui.
Hai notato delle contraddizioni tra quello che emerge dalla ricerca e quello che le persone sentono?
Un po’ sì, ma è stato il dibattito che è scaturito dopo la pubblicazione ad aver superato le mie aspettative. Non mi immaginavo articoli ed email così copiosi. Molto dibattuto è stato l’asse verticale della ricerca, quello che riguarda la coesione sociale. Lì posso capire che la percezione sia diversa. Se una persona non ha amici e una rete sociale minima, si sente in un quartiere dormitorio.
C’è qualcosa di vero, di sentito da tutti?
Beh, l’attrattività invece è molto più oggettiva. Non si può parlare di Navigli e Niguarda allo stesso modo. Per i non residenti ovviamente, Brera, Garibaldi sono delle zone che sono belle e vengono frequentate per lavoro e shopping. Ci sono dei quartieri dove non si va solitamente da non residenti, come la Barona. Inutile accanirsi a dire il contrario.
Cosa spinge questo rigurgito di orgoglio locale?
Pensa al mondo del rap milanese e a quanti eroi di quel genere musicale cantano alla loro maniera di luoghi che poi diventano famosi in tutta Italia. ‘I ragazzi della mia zona’ dicono i vari Ghali, che è di Baggio, Marracash che è della Barona, il fenomeno Irbis 37 della Bovisa, Rkomi di Calvairate. In questi anni è il loro storytelling che fa emergere il quartiere milanese.

Se dovessi raccontare come cambia la città, cosa diresti?
La street credibility offre una nuova immagine di Milano. Le tre F di questa città, fashion, finanza, file fuori, intese come costante fiorire di eventi esclusivi, sono affiancate oggi da altro. Il rapper ti racconta il suo mondo, fa trasparire un attaccamento che magari c’era anche prima ma non era raccontato all’esterno perché non era figo. C’è una sorta di orgoglio iperlocale che fa bene.
Uno degli elementi di “conforto” di questa nuova Milano è la coesione. Dove la riscontriamo?
Porta Venezia, NoLo e Isola sono quartieri che hanno fondado la loro fortuna all’esterno sul senso di coesione sociale tra gli abitanti. Si tratta di un nuovo modo di vivere le vicinanze che si ritrova anche nel quartiere ‘borgo’ come Baggio e Chiaravalle. Da qui a diventare ‘scena’ appetibile anche per i district user però ce ne vuole. Nel senso che non tutti i quartieri community poi alla sera diventano affollati di gente che vuole starci per bere o mangiare.
Questo a NoLo sta succedendo, almeno era così prima del lockdown…
Sì perché arriva il punto che l’orgoglio di appartenenza crea anche fascino. ‘Le ragazze di Porta Venezia’ di Myss Keta ha dato l’avvio. Ci si sente parte di una scena, la zona diventa all’improvviso appetibile per chi non vive lì e la frequenta anche per dare un segnale di esserci. E queste sono anche le zone più a rischio di gentrification.
Unità fa qualità di vita?
Le cose si evolvono molto velocemente nelle città. Isola all’inizio era più comunità mentre ora sta salendo verso lo stile ‘vetrina’, come Porta Romana. Tra un po’ questi posti potrebbero diventare vetrine e si rischia di perdere il senso di coesione necessario per una qualità di vita buona. Poi ci sono zone come Dergano, periferia orgogliosa, che ha risposto bene al quadrato, ci sono abitanti che ci hanno scritto con molto entusiasmo. Quell’angolo di città sta esplodendo, vuoi per la vicinanza con Isola, per l’apertura di locali, la presenza delle case discografiche, la piazza che ha fatto il Comune.
C’è il rischio che la minor socialità imposta finisca per chiudere in se stessi questi quartieri?
Il senso di comunità non si perde, la spesa sospesa che ha viaggiato con successo dall’online al reale a NoLo è una prova. Anche il successo di iniziative digitali come SanNoLo 2020 è una bella prova. Un’occasione che si fondava sull’aggregazione ha funzionato anche sul web, credo sia il caso di comunità liquida che riesce a trovare altri contenitori. Non la vedo come cosa negativa. Ci si incontra e ci si sceglie, si sta insieme su whatsapp.
Credi che questi quadrati semiotici delle città si possano replicare in altre città?
Certo, si può fare di Londra, Berlino, i quartieri dormitorio o vetrina sono ovunque. Le dinamiche di Milano sono molto assimilabili a quelle delle città d’Europa. Ci sono delle città che un po’ sfuggono e le devi conoscere bene. Napoli per esempio è comunità ovunque, c’è forse più demarcazione tra posti esclusivi o inclusivi, è una città che sfugge a certe dinamiche.

Cosa può insegnare Milano alle altre città?
Ci sono esempi da seguire o da tenere a mente come monito. Il quartiere della moda è una vetrina bellissima ma gli affitti sono così cari che alla sera non c’è nessuno perché nessuno ci abita. Bicocca era nelle intenzioni un quartiere della nuova università ma se concentriamo tutta la socialità nel centro commerciale, la vita resta chiusa in una scatola. A NoLo la voglia di socialità è arrivata dal basso ma è stato importante anche il ruolo del Comune che ha abbellito e creato alcune piazze in modo da favorire l’incontro, come è avvenuto alla Darsena. E questo ci fa capire cosa potrebbe diventare piazzale Loreto con un giusto intervento pubblico.