A un primo sguardo distratto, questi reperti di plastica raccolti su Archeoplastica sembrano quasi belli. Enfatizzati da fotografie ad arte e descrizioni quasi avvincenti, ci fanno finanche tenerezza. Ma quello che il museo virtuale “in fieri” di Archeoplastica vuole suscitare è ben altro che ammirazione. Si tratta di una tremenda galleria di orrore e morte, per il pianeta e per la natura. E soprattutto un viaggio tra le nostre coscienze, dentro la più profonda sensazione di vergogna per noi stessi che quei reperti li abbiamo abbandonati, generando una catastrofe continua e inarrestabile.
Su Archeoplastica si legge: “Quelli che vedete sono solo una piccola parte di oltre 300 reperti archeoplastici. Stiamo lavorando per caricare i reperti nel museo virtuale“. E ce ne sono: il Royal Blend Coppertone anni 60, un vecchissimo flacone di crema protettiva dei primissimi anni ’60 trovato sulle spiagge del ferrarese. C’è poi un Sol derma anni 70 un olio spray abbronzante restituito intatto dal mare: non sappiamo nulla di lui se non che costava 950 lire, probabilmente quanto il Topexan dal 1980, intatto. Perché è anche questa la caratteristica dell’archeologia legata ai rifiuti della plastica: non ha bisogno di restauratori, i contenitori restano uguali pressocché invariati nei decenni.
Ed è questo che crea allarme, purtroppo.
Attraverso la tecnica della fotogrammetria i reperti archeoplastici trovati in spiaggia negli ultimi tre anni durante le giornate di raccolta, verranno riprodotti in 3D. Si tratta di oltre 200 reperti degli anni ’80,’70 e ’60.
I rimedi, oltre agli allarmi, ci sono. Si parla di una “new plastic economy”, data la prevista crescita del consumo, e in considerazione del fatto che la produzione di plastica è aumentata di venti volte dal 1964, raggiungendo i 311 milioni di tonnellate nel 2014. Entro il 2050 si prevede che gli oceani conterranno più plastica che pesce (in peso) e l’intera industria della plastica consumerà il 20% della produzione totale di petrolio, e 15 % del bilancio annuale del carbonio.