Gli anni passano ma la classe, quella vera, non scompare mai. È difficile che succeda, specie quando si parla del ‘Boss della musica mondiale’, Bruce Springsteen. Il cantante statunitense, di origine italo-irlandesi, lo scorso 10 settembre aveva annunciato ufficialmente il suo ritorno con il brano omonimo dell’album uscito, poi successivamente, lo scorso 23 ottobre: ‘Letter to you’. Il disco lo ha fatto entrare nella leggenda: è l’unica solo-star ad aver avuto un disco al numero uno in Gran Bretagna in cinque decadi diverse. Con questo album numero 20 ha raggiunto per 21 volte (un disco è una raccolta) la top 5 di Billboard in America. Insomma, commercialmente il Boss si è superato in questo 2020.
Certo, dopo il successo di ‘Western Stars’ si pensava che Bruce rimandasse a tempi migliori (per la promozione) l’uscita di inediti. E invece ha scelto di condividere col suo sterminato pubblico mondiale atmosfere intimiste e ispirazioni al primo Bob Dylan.
Un progetto musicale, secondo alcuni, che rappresenterebbe il seguito del precedente ‘Western Stars’, pubblicato l’anno scorso, nato comunque prima della pandemia. Le canzoni sono state registrate a casa di Bruce Springsteen con la E-Street band.
A produrre il disco è tornato addirittura, dopo tanti anni, Ron Aiello, lo storico produttore dei suoi primi successi.Inoltre, contemporaneamente all’uscita del nuovo cd sulla piattaforma streaming Apple Tv, è stato reso disponibile il documentario omonimo in cui si racconta il backstage e si esplica l’idea di base di questa nuova raccolta per la maggior parte d’inediti.
Una tracklist composta da: One minute you’re here; Letter to you; Burnin’ Train; Janey needs a shooter; last man standing; The Power of prayer; House a thousand guitars; Rainmaker; If I was the priest; Ghosts; Song for orphans; I’ll see you my dreams. Facendo ordine, però, le tracce numero 4, 9 ed 11 sono quelle rimaste nel cassetto del Boss per quasi cinquanta anni.
Certo non ci sono brani potenti come ‘Born In the Usa’ o ‘Dancing in the dark’ oppure ‘Human Touch’, ma le hit proposte completano, anche questa volta, la missione musicale del cantante di origine italo-irlandese: quella, non solo di narrare gli Stati Uniti d’America, ma di alimentarne il sogno.
Un sogno che in questo lavoro diventa inevitabilmente malinconico. Forse per gli anni che passano o forse anche per alcune persone che non ci sono più, come le colonne portanti della sua band: il sassofonista Clarence Clemons ed il batterista Danny Federici. Il brano che dà il titolo all’album si riferisce proprio a loro ed anche ad altri compagni di viaggio del boss, meno conosciuti e sfortunati che non hanno ottenuto il successo che meritavano, come George Theiss. Quest’ultimo era il fondatore dei Castiles, primo gruppo di Springsteen, morto nel 2018. Da quello che si è potuto appurare a questa figura, poco conosciuta per noi, gli sono state dedicate non una ma ben due canzoni: ‘Ghost’ e ‘Last Man Standing’.
Ballate e poesie, quindi. Musica e parole si fondono in un unico suono che si segue dall’inizio alla fine, dal primo all’ultimo brano. Un sound, il suo, ancora inconfondibile. Dove il tono di voce diventa, in occasione di ‘I was a priest’ del 1974, un predicatore religioso; polemico, quasi, in ‘Rainmaker’ dove nel testo si fa un chiaro riferimento ad un affabulatore di masse. Forse un indiretto riferimento a Donald Trump?
Mero cantastorie in ‘Janey needs a shooter’, del 1972, e in ‘Song for Orphans’ del 1971. Nel primo singolo menzionato si racconta la storia di una ragazza che ha avuto molti uomini e le cui atmosfere richiamano il primissimo album pubblicato. Secondo alcuni ‘Janey needs a shooter’ è considerata la migliore. Non è da sottovalutare nemmeno ‘Song for Orphans’: una bella ballata alla Bob Dylan in cui la nostalgia, non solo come testo ma anche come costruzione musicale, emerge ancor di più rispetto alle altre canzoni.
Invece in ‘One minute you’re here’ oltre alla nostalgia, i ricordi di un tempo passato, emerge anche il concetto della morte con la metafora del treno. Canzone che si potrebbe collegare, forse, alla terza traccia ‘Burnin train’.
Nel complesso ‘Letter to you’ è un buon album, dove si cerca di strizzare l’occhio agli esordi, alle prime composizioni. Si ascolta senza mai stancarsi, si ascolta scoprendo i suoni tipici degli Stati Uniti d’America, quella rurale, quella delle piccole contee. Ovvero si ascolta l’anima del paese a stelle e strisce, quella sana. Un album dove la nostalgia la fa da padrona, senza mai perdere comunque la speranza.
Un album in cui la capacità di ideare e realizzare canzoni che possono rimanere nel tempo non è mai stata scalfita dall’inesorabile avanzata dal tempo. Impossibile dire che perde colpi: il vino è ancor più buono quando è invecchiato.
Un lavoro musicale che è stato riconosciuto tra i più rilevanti del 2020 e anche in questo caso di può dire che il Boss non è tornato, ma è semplicemente sempre presente come i grandi sanno fare.
Testo a cura di Vincenzo Pepe.