Esiste un mondo in cui l’uomo può essere giusto coi suoi simili, in cui la corruzione non esiste e ciascuno svolge il proprio compito nell’interesse collettivo, in cui l’onestà è un valore e viene ripagata con il plauso di tutti? La risposta che ci dà Gogol’ nel suo L’Ispettore Generale portato in scena da Leo Muscato con Rocco Papaleo è, desolatamente, no. E lo fa scrivendo una commedia dissacrante, provocatoriamente ironica, che sfida la censura delle autorità zariste dell’epoca, le stesse che nell’opera mette alla berlina. Nel 1836, infatti, lo zar Nicola I aveva istituito un nuovo organo di stato, la Terza Sezione, una sorta d’inquisizione per perseguire e ostacolare i liberi pensatori come Dostoevskij, Puškin e Gogol’ stesso. In breve tempo, questo sistema scatenò un processo di burocratizzazione della macchina amministrativa che aumentò esponenzialmente la corruzione tra i funzionari statali. “Nello scrivere questa satira grottesca, – spiega Muscato, – Gogol’ provocò un vero terremoto tra la borghesia pietroburghese che esprimeva proprio quei burocrati statali che agivano con troppa libertà nei palazzi dell’impero. Solo che, per aggirare la censura, trasferì l’azione in un villaggio sperduto ai confini del nulla in cui agiscono un manipolo di funzionari di provincia, traffichini che si sentono intoccabili. Tra tutti spicca il podestà che gestisce la cosa pubblica come se fosse il proprio feudo e arrotonda con leggerezza lo stipendio statale, che a suo dire è una miseria, con mazzette.” Le stesse che dovrà rendere poi lui stesso all’Ispettore Generale, in cambio di una necessaria acquiescenza sul suo operato.
Ma di che si tratta, di preciso? Della più classica commedia degli equivoci. In una cittadina qualunque della provincia russa, la notizia della visita di un ispettore generale mette in allarme funzionari e notabili. Bisognerà nascondere le magagne della pubblica amministrazione, far credere che tutto funzioni alla perfezione, evitare che vengano a galla inefficienza e disonestà. Il subbuglio è tale che un giovane di passaggio, lo squattrinato bellimbusto Chlestakov, viene scambiato per il misterioso controllore. Omaggiato da tutti e allettato da offerte di denaro sempre più sfacciate, Chlestakov sfrutta più che può la situazione e si dilegua giusto prima che si scopra il malinteso e venga annunciato l’arrivo del vero ispettore. Corrotti, approfittatori, affaristi, sfruttatori, gli abitanti della cittadina della Russia zarista sono presi al laccio dei loro stessi inganni, man mano che emergono la mascalzonaggine, l’imbroglio e l’assenza di buona fede da parte del protagonista e degli altri personaggi.
Lo spettacolo immaginato e realizzato da Leo Muscato è una perfetta macchina comica che elimina alcune farraginosità (legate all’attualità dell’epoca) del testo originale e riducendone la durata in un’ora e quaranta senza intervallo. Nella messa in scena, però, tutto ci parla della Russia dell’Ottocento: dalle ingegnose scene di Andrea Belli illuminate dalle luci fredde di Alessandro Verazzi, ai pesanti costumi dai fantasiosi cappotti di Margherita Baldoni. A dimostrazione del fatto che, quando il testo è un capolavoro universale e la regia è accurata e coerente, qualsiasi sforzo di attualizzazione è inutile, se non dannoso. Qui i numerosi interpreti (tredici!) della compagnia si muovono con disinvoltura e parlano con estro, garantendo ritmo sostenuto e fluidità dell’azione. A cominciare da Rocco Papaleo, perfettamente a suo agio nel rendere simpatico un personaggio grottesco e, se si vuole, tragico nella sua miseria: quel corrotto podestà che organizza il grande piano per corrompere l’ispettore, forte coi deboli (fa frustare, per non meglio precisati motivi, una vedova) e servile coi potenti. Ma il colpo di genio di Gogol’, ciò che rende il tutto ancora più ridicolo e squallido, è che chi lui crede essere l’agente imperiale è nient’altro che un giovane smidollato dedito a ogni vizio e che per questo accetta di buon grato le bustarelle che tutto il villaggio, a turno, gli offre: l’ignaro (almeno inizialmente) Chlestakov dell’ottimo Daniele Marmi.
Tra i tanti caratteri della pièce, piace ricordare gli ineffabili Dobčinskij e Bobčinskij dei bravissimi Michele Schiano di Cola e Michele Cipriani; il Direttore Scolastico balbuziente dell’irresistibile Marco Vergani e la Dottoressa (russa) di Elena Aimone, vero talento comico.
“È stata una vera sfida – afferma Papaleo – affrontare un personaggio dalle caratteristiche così diverse dalle mie. Di solito, non sono uno di quegli attori che entrano nel personaggio ma lascio che sia il personaggio ad entrare in me e, semmai, gli offro anche da bere. Qui, dunque, ho dovuto scavare un po’ nel fango che noi tutti abbiamo per restituire tutti i difetti di un personaggio ridicolo”. Un personaggio che tutti noi riconosciamo e in cui, a volte, ci riconosciamo. Perché, interpretando il pensiero di Gogol’, non è l’uomo a essere malvagio ma la società che lo rende tale.

Una produzione TEATRO STABILE DI BOLZANO, TEATRO STABILE DI TORINO – TEATRO NAZIONALE e TSV – TEATRO NAZIONALE, in scena al Teatro Bellini di Napoli fino a domenica 23 febbraio. Lo spettacolo con Rocco Papaleo, con adattamento e regia di Leo Muscato sarà poi a Catania e a Bologna.
Recensione a cura di Davide D’Antonio