Può esserci spazio all’interno di una società ego-riferita per il design gentile? Il mese scorso si è svolta a Salerno una design week organizzata da Confindustria Salerno che ha portato in città mostre, laboratori, tavole rotonde, mettendo insieme oggetti, professionisti e pubblico, grandi sforzi e una bella energia per convogliare qui riflessioni e prodotti di design.
Invitata a un talk durante questa prima edizione della Salerno Design Week, ho scelto di parlare dell’argomento che ha dato il titolo alla manifestazione di quest’anno, ovvero “la gentilezza del design”.
L’ho trovato un tema così bello, inconsueto, quasi sovversivo nella sua “inattualità” e ne ho tratto spunto per pormi una serie di domande.
Può il design essere definito “gentile”? E che caratteristiche deve avere per meritare questo appellativo?
La parola “gentilezza” ci appare inusuale nell’epoca in cui viviamo caratterizzata da aggressività, violenza e perfino guerre.
La gentilezza è un comportamento che quando incontriamo sul nostro cammino ci mette subito in una condizione di serenità e ci predispone in modo positivoverso le persone che ce ne fanno dono.
Come declinarla nel nostro mestiere, ovvero in quello di progettisti?

Ho pensato come prima cosa al suo significato letterale, definendola in riferimento al suo opposto: gentile è ciò che non urla, non è prepotente, non è aggressivo, non è invadente.
In questo senso possiamo dire che il design è gentile quando non è impositivo, quando nasce dall’ascolto del committente, da un rapporto di scambio con lui, e lo scambio è sempre alla pari, è un processo sempre orizzontale, mai un’imposizione unilaterale.
Noi come studio non solo siamo stimolati dai confronticon i clienti, ma pensiamo addirittura che alcuni dei nostri risultati migliori siano nati proprio quando siamo stati costretti a guardare le cose dal loro punto di vista, a rimodulare le nostre convinzioni, a “sporcarle” con le esigenze quotidiane dei singoli.
Questo processo è gentile perché è una tavola rotonda, mai una lezione alla lavagna, semmai un accompagnamento reciproco alla comprensione delle ragioni di tutte le parti in gioco.
Ho poi pensato che la gentilezza ha anche a che fare con la “cura” rivolta agli oggetti che progettiamo.
Questi oggetti noi li guardiamo da varie angolazioni, li accarezziamo, ce li giriamo e rigiriamo tra le mani (metaforicamente), gli dedichiamo insomma tantissima cura.
Anche prendersi cura di qualcosa o di qualcuno è un’attività rara in un’epoca in cui tutto si consuma velocemente, perché richiede tempo e attenzione.
Noi immaginiamo che tutta questa cura che dedichiamo agli oggetti che progettiamo, venga assorbita dagli oggetti stessi diventando una loro capacità intrinseca che si espliciterà ogni volta che le persone per scelta o per caso verranno a contatto con loro.
Una sorta di transfer insomma, una trasmissione di valore che permetta ai prodotti di design che sono stati oggetto di cura di prendersi a loro volta cura degli altri.
Questa stessa attenzione la dedichiamo alla progettazione degli spazi che ha sempre come primo riferimento le persone che li utilizzeranno e lì piangeranno, rideranno, saranno tristi e in cerca di conforto o così felici da ballarci dentro.
Cercare di creare luoghi che si prendano cura delle azioni delle persone è un modo per rifuggire la tentazione di produrre solo immagini buone per i social, figurine bidimensionali acchiappa like utili per il proprio ego e la propria reputazione perdendo di vista l’utente finale, che non è mai il pubblico che applaude, ma l’individuo che vive.
Il design gentile, per concludere, è quello che rinuncia a una messa in scena narcisistica per mettersi in contatto con gli altri consapevole che la relazione non può far altro che renderlo migliore.