L’Africa è protagonista della mostra estiva al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, aperta fino all’11 settembre a cura di Adelina von Fürstenberg, con video e performance a cura di Ginevra Bria.
Già dal titolo si possono capire gli intenti dell’esposizione che sarà animata da diversi eventi collaterali: AFRICA. Raccontare un mondo. Il nome del continente in maiuscolo nella sua necessità di definirsi come universo unico e peculiare attraverso il racconto dei suoi artisti contemporanei. La narrazione si snoda senza soluzione di continuità tra le diverse discipline impiegate, dall’installazione al video, dalla performance al disegno, dai dipinti alle sculture, per costituire una riflessione corale sulla terra d’origine, sull’Africa e la sua storia, sul suo rapporto con l’Occidente tra postcolonialismo e migrazioni, sulle diverse questioni del presente di tipo economico, religioso e di genere.
L’estrema varietà dei linguaggi che si incontrano in una visita al PAC non corrisponde però ad una difficoltà di comprensione: senza la pretesa di rendere esaustiva l’indagine della scena artistica subsahariana dell’Africa contemporanea, per il visitatore potrà essere occasione per affacciarsi ad una finestra verso un mondo poco studiato, con alcuni esempi significativi capaci di svelare un carattere esuberante e polemico, altamente consapevole della violenza e delle contraddizioni della propria terra e intenzionato a farsi carico e denuncia della sua esistenza molteplice, capace di far pensare ma anche di mostrarsi cacciatore di bellezza nella ricomposizione di un gesto o di una figurazione.
Nell’arco di due ore circa di visita, per coloro che amano soffermarsi su tutto il percorso con calma agostana, l’arte d’Africa contemporanea reclama la sua presenza nel sistema internazionale con i 33 artisti presenti, appartenenti a diverse generazioni e molti di essi residenti o operanti con la loro poetica in diversi stati occidentali. Le opere in mostra provengono da collezioni pubbliche e private internazionali.
Ciò che appare poco evidente è la suddivisione in quattro nuclei di questi protagonisti, quelli riuniti nel “Dopo Indipendenza”, gli engagé dell’Introspezione Identitaria, la “Generazione Africa” entusiasta e partecipe del mondo contemporaneo e il gruppo di artiste identificate nel loro utilizzo del Corpo come strumento espressivo e delle cosiddette Politiche della Distanza.
Forse è meglio così, meglio entrare in un luogo deputato all’arte contemporanea per uscirne con alcune opere o autori ai quali dedicheremo il nostro pensiero nei giorni successivi, suggeriremo la visita ad un amico e magari torneremo con lui per approfondire la conoscenza degli altri, nel caso di Africa per una visita guidata gratuita di domenica, per una proiezione o un talk del martedì.
In mostra si trova anche anche una selezione di sedute di designer africani: Dokter & Misses (Sud Africa), Alassane Drabo (Burkina Faso), Amadou Fatoumata (Senegal), Gonçalo Mabunda (Mozambico) e Nawaaz Sadulker (Sud Africa).
Segnalo cinque highlights dalla mia visita, che sarà completata dal cinema africano all’aperto nel cortile dal Pac:
– la sala dei video al primo piano con le registe africane, in primis Tracey Rose che sanno davvero usare il corpo come una metafora, estremamente colte nei rimandi culturali e letterari africani e d’occidente, pur lasciando all’immagine la guida delle nostre emozioni.
– il “merzbau” contemporaneo di Georges Adéagbo (oggi uno dei più famosi artisti africani), che intreccia le storie personali degli oggetti con quella d’Africa, che racconta vite parallele nel suo guardare alle piccole cose quotidiane, raccolte sul territorio sul quale si trova a passare.
– I ready made di Romuald Hazoumé con il sistematico impiego dei materiali di recupero che diventa poetica e si riallaccia alla tradizione artigianale e religiosa Yoruba e delle sue maschere. Lo scarto si trasforma in ritratto della contraddizione.
– la grande barca di Barthélémy Toguo, installazione di grande effetto e immediatamente comprensibile nell’allusione all’immigrazione per mare ( ci ricorda l’altra barca presente in Triennale): nei suoi cinque metri riempita con i fagotti dei suoi passeggeri in coloratissimi tessuti batik, (disperazione e speranza allo stesso tempo), in un mare di bottiglie di plastica che rivela la mancanza di fiducia nel miglioramento di condizione. per chi attraversa il Mar Mediterraneo.
– i lavori di Malala Andrialavidrazana con la sua riflessione sul colonialismo di oggi e di ieri, attraverso la rielaborazione di uno strumento antico che la rappresenti: la mappa.
Tutti gli artisti in mostra sono:
Georges Adeagbo (Benin); Nathalie Anguezomo Mba Bikoro (Gabon); Malala Andrialavidrazana (Madagascar); Omar Ba (Senegal); Frédéric Bruly Bouabré (Costa d’Avorio); Kudzanai Chiurai (Zimbabwe); Gabrielle Goliath (Sud Africa); Romuald Hazoumé (Benin); Anne Historical (Sud Africa); Pieter Hugo (Sud Africa); Seydou Keïta (Mali); Donna Kukama (Sud Africa); Ato Malinda (Kenya); Abu Bakarr Mansaray (Sierra Leone); Senzeni Marasela (Sud Africa); Zanele Muholi (Sud Africa); J.D. Okhai Ojeikere (Nigeria); Idrissa Ouédraogo (Burkina Faso); Richard Onyango (Kenya); Tracey Rose (Sud Africa); Chéri Samba (Congo); Buhlebezwe Siwani (Sud Africa); Berni Searle (Sud Africa); Yinka Shonibare MBE (Nigeria; Malick Sidibé (Mali); Abdelrahmane Sissako (Maurtania); Barthélémy Toguo (Camerun); Billie Zangewa (Malawi).
Testo e foto: Michela Ongaretti
Foto d’apertura: panoramica della performance di Donna Kukama.