Indossare un abito, da un punto di vista antropologico, non è mai stato un atto neutro. Da moltissimo tempo la vestizione umana non risponde più a una mera esigenza di sopravvivenza o protezione del corpo, ma si configura come un gesto simbolico denso di significati, un linguaggio implicito che racconta l’identità, la cultura, il tempo storico. Oggi siamo chiamati a confrontarci col progresso e l’intelligenza artificiale anche applicata alla moda. La moda, da sempre, è un terreno di riflessione per la filosofia: spazio dell’apparire, ma anche del rivelarsi; forma della superficie e specchio dell’interiorità.
Oggi, però, questa riflessione si complica ulteriormente. L’universo della moda è stato attraversato, e in parte trasformato, dall’ingresso dell’intelligenza artificiale. Anche la produzione di abiti è, ovviamente, un’attività primariamente antropologica, che non può prescindere dalla cultura in cui si dà forma al capo né dalla psicologia dei destinatari che indosseranno quei capi. In questa prospettiva, la moda è una forma d’arte: crea, assembla e costruisce codici in movimento, trasformando il tessuto in una trama di significati in ottemperanza a criteri estetici e valori di riferimento di quel dato periodo storico. A questo orizzonte semantico già assai complesso oggi si sovrappone la pervasivitàdell’intelligenza artificiale, che – come in altri domini in cui si è espansa – sta ridefinendone i valori e le dinamiche interne.
A partire da questa contaminazione, si aprono interrogativi radicali: cosa significa creare nell’era degli algoritmi? Quale corpo abita i nuovi abiti tecnologici? E che ne sarà del gusto, quando sarà l’IA a determinarlo?
1. La creatività nell’epoca della simulazione
Uno dei primi snodi da affrontare in questo rapporto tra moda e IA è quello dell’atto creativo. In che modo, ci si chiede, l’opera dello stilista può preservare la propria natura autentica in un contesto in cui l’intelligenza artificiale si offre — spesso subdolamente — come sostituto dell’intelligenza umana?
La questione è delicata. L’IA, attraverso le reti neurali generative, è ormai capace di produrre bozzetti, combinazioni cromatiche, previsioni stilistiche. Ma c’è qualcosa nell’atto umano del creareche sfugge alla logica combinatoria della macchina. Anche l’essere umano, a ben vedere, non crea ex nihilo: egli attinge da repertori culturali, simbolici, storici. Tuttavia, a differenza della macchina, l’essere umano introduce nel processo creativo la risonanza emotiva, la tensione interiore, la relazione.
L’atto creativo umano è eccedenza. È esperienza incarnata, affettiva, relazionale. Un vestito non è solo la somma di forme e tessuti: è un gesto, un’intuizione, una memoria, una ferita forse. L’intelligenza artificiale può imitare lo stile, ma non abitare il simbolo. Può predire una tendenza, ma non provare desiderio. Il rischio non è tanto quello della sostituzione, quanto della perdita di profondità, della riduzione dell’arte del vestire a un’operazione statistica.
In questo senso, difendere la creatività umana nella moda non è solo una posizione romantica: è un atto filosofico che riafferma la centralità dell’umano come essere capace di significare, di sentire, di trasformare l’esperienza in forma.
2. Il corpo avvolto: moda, tecnologia e mutazione antropologica
Un secondo aspetto, non meno urgente, riguarda il progressivo assorbimento tecnologico del corpo attraverso l’abito. La moda contemporanea, contaminata dall’intelligenza artificiale e dalle tecnologie digitali, si orienta verso la creazione di indumenti intelligenti: vestiti che registrano dati biometrici, comunicano con l’ambiente, reagiscono agli stimoli. L’abito diventa interfaccia, dispositivo, estensione cognitiva.
Questa trasformazione si inserisce in una più ampia evoluzione del rapporto uomo-macchina, che possiamo articolare in tre fasi:
• Una prima fase, di tipo dualista, in cui il computer è strumento esterno, posizionato di fronte all’uomo, utilizzabile, controllabile.
• Una seconda fase, quella dell’ambientalizzazionetecnologica, in cui la macchina diventa parte dell’ecosistema umano, con dispositivi diffusi e interconnessi (Internet ofThings), rendendo impossibile separarsi dal digitale.
• Una terza fase, la più radicale, in cui la tecnologia avvolge il corpo, si fa tessuto e pelle, culminando nell’ibridazione. I vestiti non sono più semplicemente portati: diventano macchina.
È in questo contesto che la moda acquista un potere inedito: non solo rappresenta l’identità, ma la plasma tecnicamente. L’indumento intelligente misura, regola, interpreta il corpo. Si fa atto di governo dell’identità. In tale prospettiva, il soggetto non indossa più l’abito: è l’abito — e ciò impone una riflessione profonda sull’ontologia del corpo, sull’autenticità dell’esperienza, e sull’umano come luogo vulnerabile della tecnica.
3. L’algoritmo del gusto e il rischio dell’omologazione
Infine, un altro nodo fondamentale (tra i tanti che meriterebbero attenzione) è quello dell’omologazione del gusto nell’epoca della moda algoritmica. Se l’intelligenza artificiale è capace di gestire milioni di dati relativi alle preferenze dei consumatori, e se tali dati vengono rielaborati per generare modelli predittivi, che ne sarà della libertà estetica, della spontaneità espressiva?
L’IA, infatti, promette una moda più “chirurgica”, più efficiente, capace di prevedere con precisione le tendenze e soddisfare la domanda. Ma in realtà essa anticipa e condiziona il desiderio, lo incanala, lo ottimizza. La diversità stilistica si piega a una logica di performatività commerciale. L’algoritmo non interpreta solo il gusto: lo determina.
Si ha così una standardizzazione mascherata da personalizzazione. Il soggetto, credendo di scegliere, è in realtà scelto. La moda diventa risposta automatica al desiderio codificato, e smette di essere linguaggio espressivo, luogo di resistenza, immaginazione dell’alterità.
A questo si aggiunge il drammatico impatto ambientale di una moda sempre più veloce e reattiva, stimolata da logiche predittive: la fast fashion algoritmica accelera la produzione, riduce i tempi di obsolescenza, genera rifiuti. L’IA che ottimizza il mercato contribuisce a consumare il pianeta, in un sistema che non lascia spazio alla riflessione, alla lentezza, al senso.
Conclusioni
La relazione fra IA e moda, che in queste poche righe ho cercato di far emergere, ci sollecita a ripensare il nesso tra tecnica, estetica e antropologia. L’abito – che per gran parte della storia dell’umanità ha coperto il corpo dell’uomo di simboli – diventa ora una specie di interfaccia tra la carne e l’ecosistema informazionale.
Di fronte a questa ibridazione emergono tre assi di responsabilità:
1. Responsabilità culturale: vigilare affinché l’uso dell’IA mantenga la moda un’attività umana basata su criteri estetici, culturali e simbolici puri.
2. Responsabilità ecologica: pretendere che l’efficienza predittiva serva a ridurre sprechi e sovrapproduzione, non a moltiplicare desideri effimeri.
3. Responsabilità politica: garantire trasparenza sugli algoritmi che mediano tra gusto personale e proposta commerciale.
La posta in gioco in questa nuova fase dell’evoluzione della moda con l’intelligenza artificiale non è la «fine» del design umano, bensì la possibilità di coevolvere con macchine capaci di apprendere i nostri codici e, al contempo, di essere riprogrammate dai nostri valori: la moda, si potrebbe dire, si conferma essere un prezioso laboratorio privilegiato per interrogare la tecnica informatica sulla forma di vita che desideriamo.
Testo a cura di Francesco Luigi Gallo