Patrick Facciolo è dottore in tecniche psicologiche e giornalista. Si occupa di divulgazione, formazione e coaching sui temi del Public Speaking, l’arte di parlare in pubblico. Autore di sei libri, è ideatore di Parlarealmicrofono.it e del podcast “Public Speaking Professionale”. Oggi in questa intervista Patrick Facciolo ci aiuta a capire come parlare in pubblico faccia parte della vita di ognuno di noi, sottolineandone l’importanza anche nella quotidianità.

Cosa ti spinge a fare questo mestiere?
Mi piace fare questo mestiere perché per me è importante che le persone si sentano ascoltate. Cerco di restituire alle persone un po’ della mia capacità di comunicare, qualcosa che ho ricercato per me negli anni, e che oggi diventa una possibilità da condividere con gli altri. Nella nostra società riuscire a comunicare è molto importante: il linguaggio fa da intermediario tra ciò che proviamo e ciò che effettivamente riusciamo a esprimere e fare arrivare all’altro.
In che modo è cambiata la richiesta di formazione sui temi del public speaking da parte delle persone in questi ultimi anni?
Il cambiamento più evidente è anche il più recente: riunioni, meeting e conferenze si sono trasferiti in modalità online. Se prima eravamo restii o pigri a usare questi nuovi mezzi, oggi ci siamo dovuti adattare all’esigenza di utilizzare la webcam per parlare in pubblico. Un altro cambiamento importante che sto notando, è che mi sembra stiano aumentando i giovani poco abituati a parlare in pubblico. Forse una delle cause è il fatto che durante il loro percorso formativo affrontino più prove scritte e meno prove orali, e questo nel tempo stia portando a un minor allenamento a parlare in pubblico. È un’ipotesi.
Quanto condiziona, o può condizionare, l’assenso che il pubblico ci manifesta quando parliamo in pubblico in presenza?
Spesso il concetto di assenso o dissenso è il risultato di una nostra interpretazione, non sempre verificata. Quando facciamo un intervento in presenza, può capitare che le persone ci comunichino dei segnali non verbali espliciti (il fatto di annuire, di fare “sì” o “no” con la testa, per esempio). In questi casi, è importante che quelle persone non diventino il nostro unico interlocutore, poiché questo escluderebbe tutti gli altri. Nel Public Speaking possiamo dire che uno vale uno: non importa se nella mia platea ci sarà un amministratore delegato, una personalità importante o una persona che passava di là per caso, e non importa se una persona annuirà o dissentirà attraverso le sue espressioni del volto: cercherò, per quanto possibile, di guardare tutti con la stessa attenzione.
Quando parliamo in pubblico è possibile che ci siano rivolte delle domande. Quanto è difficile cambiare ruolo, e da spettatore diventare protagonista?
Una persona che è seduta in platea, e che decide di mettersi al centro dell’attenzione per fare una domanda, fa una scelta coraggiosa. Solitamente ci pensa bene prima di farlo: potrebbe chiedersi se è il caso, se la domanda è appropriata, se quella stessa domanda magari è già stata fatta. Lato nostro, in quanto relatori, dovremmo imparare a diventare più consapevoli che forse quello è un atto di coraggio, riconoscendo che quell’atto ha una qualità particolare. Quando riceviamo una considerazione da un nostro spettatore che ci sembra critica, non è detto che quella persona sia necessariamente “contro” di noi. Ci sono tante variabili che non ci è dato conoscere, e che possono condizionare le parole di chi sta facendo la considerazione: quella persona potrebbe sentirsi arrabbiata perché ha trovato un parcheggio a pagamento che secondo lei costava troppo, oppure perché ha trovato traffico per raggiungere la convention, o comunque per altre motivazioni personali che niente hanno a che vedere con l’argomento di cui stiamo parlando. Questa è la ragione per cui non è possibile dare regole o ricette preconfezionate per parlare in pubblico, ma occorre sempre tener conto che l’efficacia della comunicazione dipende anche dalla predisposizione del pubblico.
Come possiamo imparare a non lasciarci condizionare dal pubblico o dal nostro interlocutore?
Ho trattato questo tema in un mio libro, “Parlare in pubblico con la mindfulness”, contenuto nella raccolta Enciclopedia del Public Speaking, che ho pubblicato nel 2019.La mindfulness (che possiamo tradurre con la parola “consapevolezza”) è una disciplina che non è rivolta a “risolvere problemi”, ma a darci una maggior contezza di ciò che proviamo. Nel momento in cui pratichiamo la meditazione di tipo mindfulness, cerchiamo di notare i pensieri e le emozioni che emergono, e le sensazioni fisiche che proviamo. Si tratta, quando meditiamo, di osservare, per poi lasciare andare. Allenarci a osservare e lasciare andare può risultare utile anche nella vita professionale. Quando parlo in pubblico, riconoscere che una cosa che sto pensando non è necessariamente né vera, né falsa, ma che si tratta semplicemente di un pensiero, può darmi una mano a relazionarmi meglio con quell’esperienza. Alla stessa maniera, può essere importante avere una maggior consapevolezza delle sensazioni fisiche che provo mentre sto sul palco (o in diretta durante un webinar, un seminario online). L’idea, più in generale, è che le emozioni non sono degli “ostacoli” da scacciare a priori, ma che è importante imparare a relazionarsi meglio con esse. E credo valga anche quando parliamo in pubblico. Relazionarsi meglio con quello che proviamo, può permetterci di scoprire cose nuove del modo con cui affrontiamo le nostre esperienze. Nel Public Speaking, ma più in generale nella vita. Perché parlare in pubblico è semplicemente uno dei tanti momenti che viviamo: fa parte, esso stesso, della vita.
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