Un’opera di divulgazione che va vanti da 10 anni attraverso pièce teatrali per ragazzi. Luca Varone è presidente e direttore artistico della Klimax Theatre Company e cerca di avvicinare le giovani generazioni al teatro. “Questo è un compito molto delicato – ci spiega – , ne sento tutta la responsabilità, perché il pubblico a cui mi rivolgo è composto da ragazzi in età adolescenziale, il pubblico del domani, la generazione Z apparentemente attratta solo dallo smartphone. Ho deciso pertanto di distruggere il teatro per ricrearlo fin dagli inizi della mia carriera, perché mai come adesso è indispensabile che anche il teatro si rivoluzioni”.
Come hai organizzato lo spettacolo per i ragazzi e cosa vuoi comunicare loro?
È stato molto semplice, perché mi sono rinchiuso all’interno di una classe scolastica ed ho osservato per tre giorni i loro comportamenti, ho ricostruito le situazioni tipiche di una giornata di scuola con le interrogazioni, l’intervento del collaboratore scolastico. E questo mi ha permesso di portare in scena la verità. Era l’intento principale, ossia di comunicare ai ragazzi la verità. Prima di iniziare uno spettacolo teatrale dico loro: attraverso di noi ora vedrete come realmente siete. Quindi, cerco di portare in scena un teatro che rispecchi le persone, che rappresenti appunto la verità.

Che tipo di reazione stai avendo?
La reazione ma soprattutto il successo è straordinario. Perché questo spettacolo prevede che alcuni degli studenti di questa classe non vengono interpretati soltanto dagli attori professionisti ma direttamente dai ragazzi presi dalla platea, quindi stiamo avendo un riscontro molto positivo perché loro sono un palcoscenico con gli attori professionisti. Questo regala al pubblico un’attenzione particolare e anche un coinvolgimento particolare, perché hanno in scena i loro compagni e perché questi ultimi devono recitare ed interagire in lingua inglese. E l’obiettivo era quello di permettere loro di avere un inglese fluente e attraverso questo spettacolo, questo format, la fluidità è assicurata.

Attraverso lo stabile di Trieste collabora con Tosca D’Aquino e Maurizio Casagrande con lo spettacolo “Il prigioniero della seconda strada” e successivamente con il padre il maestro Antonio Casagrande ne “L’uomo dal fiore in bocca” di Pirandello. Al cinema entra nel cast della serie “Gomorra” (stagione 2 e 3) con il ruolo Sergio e viene diretto dai registi Stefano Sollima, Cristina Comecini, Claudio Cupellini e Terence Malik.
Che tipo di teatro ti piace guardare da spettatore?
Come tipo di spettatore non c’è un genere teatrale che mi attira, a me piace tutto il teatro dall’antica Grecia al teatro dell’assurdo, dal teatro eduardiano e scarpettiano al teatro di Goldoni, di Shakespeare, di Pirandello, di Ibsen. A me piace quel tipo di teatro che non annoi, ma che sia in grado di riuscire a trasferire il messaggio senza annoiare lo spettatore. Questo per me è importante. Amo gli spettacoli che sono come quei libri che si leggono tutto d’un fiato, senza avere fastidio nella fruizione e nell’ascolto avvertire una sensazione di pesantezza.
E che tipo di teatro vuoi portare avanti in futuro?
Sicuramente un teatro che rispecchia la natura riconosciuta dal MIC come Compagnia di Teatro Sperimentale. Per me è importante sperimentare, è importante distruggere per ricreare. Tutto quello che voi vedete nel mondo dello spettacolo, del teatro, del cinema è tutto già stato fatto, già stato scritto non solo nel Novecento ma nell’Antica Grecia. Quindi, il dramma in quanto tale, in tutte le sue forme e sfaccettature, già è stato messo in scena. Tutti quegli autori, drammaturghi, sceneggiatori e registi teatrali che hanno messo in scena dopo l’antica Grecia qualcosa, hanno fatto una copia di quello che era già stato realizzato.
L’obiettivo quale dovrebbe essere?
E proprio perché il teatro è stato messo in scena in tutte le sue forme, l’obiettivo è sempre quello di trovare l’originalità anche se mettiamo le mani su dei classici e quindi dare una chiave moderna, distruggere, svecchiare, ricreare attraverso i linguaggi della società moderna. Questo è il teatro che ho intenzione di portare in futuro nella mia carriera in scena, perché l’obbligo dei drammaturghi è quello di trasformare le sceneggiature, riadattare, ricostruire ciò che va distrutto per forza, altrimenti resterebbe nelle librerie impolverate, in archivio teatrale, non più in uso.
Come ti trovi nella tua città di origine e cosa ti manca del sud quando sei lontano per lavoro?
Napoli è una grandissima fonte di ispirazione. Quando mi chiedono dove mi sono formato, rispondo sì ho fatto il percorso classico, accademico, la mia formazione professionale, ma sicuramente le più grandi lezioni di recitazione le ho avute in Campania, ma non nei corsi di teatro, ma frequentando le tipiche famiglie napoletane, le quali dal buongiorno, all’apertura di una porta, dall’accoglienza in una casa hanno sempre espresso il massimo del dramma.
Qualche esempio?
Un matrimonio napoletano è un corso di recitazione, o addirittura un funerale napoletano può diventare un corso di drammaturgia o una masterclass in improvvisazione, alla quale i napoletani sono molto esperti e hanno tanto da insegnare. Io abito a Roma, ma il mio cuore resta a Napoli, sono napoletano e cerco di portare in giro per l’Italia attraverso i miei spettacoli la napoletanità, forse non nel linguaggio, perché non scrivo testi in lingua napoletana, ma nello spirito, nell’impostazione della pièce teatrale.
I tuoi idoli professionali chi sono?
Essendo un attore tragicomico i miei idoli, rimanendo in Campania sono sicuramente Massimo Troisi, Eduardo De Filippo e Totò i quali hanno sempre rappresentato una comicità non volgare, ma elegante, semplice e ricca di dramma. Loro sono personaggi malinconici, ma allo stesso tempo capaci attraverso il loro estro di regalare una comicità senza pari.