Matteo Torretta, chef talentuoso e schietto, vulcanico e diretto, è il volto e la mano della cucina di El Porteño a Milano. Da due anni, i fratelli Bernardez, Fabio Acampora e Paolo Catoni gli hanno affidato i quattro ristoranti della città, tutti di matrice argentina ma ognuno con un’anima distinta. Il più raffinato è il Gourmet, a due passi dal Duomo, dove Torretta fonde sapori sudamericani e italiani con maestria: dal carnoso controfiletto alla griglia al risotto giallo con animelle e basilico, dal tiradito di fassona con salsa all’aji amarillo al caldo-freddo midollo alla brace con tartare e caviale. Ogni piatto è un viaggio che incrocia ingredienti nelle nostre latitudini con sapori del nuovo mondo, reinterpretando la tradizione con un tocco contemporaneo.

Negli anni ’40, l’Argentina rappresentava il sogno di un nuovo inizio per molti uomini e donne, che vedevano in Buenos Aires una terra di opportunità da raggiungere via mare. I “Porteños”, letteralmente “quelli del porto”, incarnano lo spirito dinamico, accogliente e passionale di Buenos Aires.

Chef, come è arrivato a El Porteño dopo le altre esperienze in cucina e in tv?
Il Covid è stato una mazzata, ho perso tanto. Facevo tv, avevo nuovi programmi in cantiere, ma tutto improvvisamente si è fermato. Non mi sono arreso: non vengo dalla Milano bene, sono stato svezzato dalla provincia, cado e so ripartire. Nel 2021 la proprietà di El Porteño mi ha contattato. Inizialmente non mi vedevo in un ristorante argentino. Ma poi mi hanno convinto. È stata la loro apertura e le sfide che quotidianamente ancora mi mettono di fronte che mi hanno conquistato.
La cucina ha incrociato tradizione argentina e italiana.
Ho dovuto toccare con mano il suolo argentino. Sono andato a Buenos Aires, ho respirato la loro aria, la loro accoglienza, le loro tradizioni. L’80% della popolazione lì ha origini italiane, mi sono sentito a casa. Al Porteño Gourmet ho creato un ponte: risotto alla milanese con animelle glassate al limone, ragù di entraña alla parrilla, tiradito di fassona con aji amarillo. È una cucina moderna che rispetta le radici di entrambi i mondi.
Com’è cambiata la ristorazione a Milano?
È stato uno tsunami. Il ristorantino stellato indipendente, da 40 coperti, con chef patron oggi non regge più. I food cost sono schizzati alle stelle: con i prezzi delle materie prime di qualità un piatto non può costare meno di trenta euro e oltre. E la gente non te lo compra più. Per non parlare degli affitti.
Dieci anni fa con 2mila euro al mese avevi un locale di 80/100 metri quadri. Oggi non trovi nulla a meno di 8-10mila al mese. Solo realtà finanziate, come quelle stellate negli hotel, sopravvivono. Milano gioca a fare Londra, ma è un paesone che francamente arranca.

Lo chef oggi deve essere imprenditore?
Sì, ma è un problema. Nel fine dining, non devi essere solo imprenditore, altrimenti non prendi stelle e riconoscimenti. La gestione razionale dei costi e i desiderata della Rossa non vanno d’accordo.
Un po’ le manca quel mondo?
A 44 anni posso dire con tranquillità che i miei momenti più creativi, più divertenti e piacevoli erano in quel mondo, in quelle piccole cucine, in quei ritmi, in quelle situazioni. Ma oggi per cucinare ed essere davvero vicino alla gente ho scelto un modello di ristorazione diverso e più accessibile. Come El Porteño
Qui ho imparato a gestire numeri enormi. Nei quattro locali milanesi (oltre a questo in Duomo, c’è all’Arena, in Macedonio Melloni e sui Navigli) il sabato sera facciamo numeri da brivido. Sono quasi 900 coperti, in cui riusciamo a standardizzare ovvero a tenere alta l’asticella della qualità. I titolari sono visionari, mi stimolano ogni giorno. Qui ho trovato stabilità, anche se per indole sono una persona che non si accontenta mai.

Il settore è in crisi?
È tossico: orari, clienti, lavoratori. Non ci sono più italiani in cucina, il lavoro del cuoco non è “normale”. I giovani non reggono o sopportano fatica e sacrificio, sono purtroppo influenzati da social e tv. È un problema socio-culturale: senza fatica non c’è successo, in nessun campo.
Un consiglio per i futuri chef?
Lavorate per il cliente, servitelo, non focalizzatevi su di voi. Girate il mondo, sperimentate. Io viaggio con mia moglie, amo cibo e mixology. Ma ricordate: il successo è sudore. I miei titolari fanno riunioni continue, non si fermano mai. È il segreto del successo.
Dove mangiare a Milano quindi?
Per un’esperienza stellata, Contraste di Matias Perdomo. Il migliore. In hotel, al Seta. Per il pesce, Langosteria: un’esperienza unica e impeccabile. Evitate pizze gourmet a 50 euro, tranne quella di Confine, lì ne vale la pena. Per il bere, tappa fissa al Gerri di via Perugino. Oppure si va al Porteño: si mangia bene, si sta bene. E i numeri lo dimostrano.