“Fake Famous” per una volta gli americani arrivano dopo gli italiani
Un irreale esperimento sociale dicono alla HBO, il colosso americano dell’intrattenimento visivo. “Fake Famous” viene promossa come la serie della vera storia di un esperimento sociale che rivela cosa sta realmente accadendo dietro le quinte della fama di influencer. Il ciclo è un tritato di visto e rivisto (amare considerazioni incluse) sulla sete di “like” di giovani wannabe che in Italia sono stati documentati benissimo negli ultimi anni.
Come ha recentemente scritto la giornalista Luana Salvatore in Italia “ci sono le influencer che al momento raccontano di un mondo che non c’è più”. L’agenda la detta il virus, come sappiamo, e i contenuti di bella vita e spensieratezza sembrano un eterno “TBT” (ripescaggi da giovedi) senza senso. L‘influencer culture, se continua di questo passo, abdica pure al suo ruolo di arma di distrazione e precipita nell’autoreferenzialità.
Cosa c’è di contemporaneo e vero nella storia di ragazzi americani che aspirano ad arrivare a Los Angeles per essere famosi? La pochezza della corsa al pink wall la dice tutta. Banalmente, c’è una parete rosa vicino a una famosa boutique della capitale californiana dove tutti si mettono in fila per fare foto per Instagram. Un set naturale all’angolo di Melrose Avenue vicino al negozio di Paul Smith dove ci si può mettere il filtro che si vuole. Ha fatto notizia quando il muro è stato imbrattato, per dirla tutta.
Creare gusto e trend con mezzi D-I-Y è sempre attitudine da incoraggiare. Provare a vivere le vite degli altri è preoccupante. E di questi tempi di più sostanza conviene cibarsi. Per non parlare della leva che programmi come “Fake Famous” e simili vogliono stuzzicare: la famigerata “FOMO”, fear of missing out, la paura dell’essere rimasti indietro. Forse è anche per questo che, come dice il regista del docu-fiction, Nick Bolton, “il successo di questi ragazzi si fonda sul farti sentire peggio“. E no, questo è troppo, Bolton: a noi, nel 2021, devono piacere cose che ci fanno sentire meglio.
Venerdì 31 marzo, alle ore 21, in Piazza dei Signori a Verona, si terrà LIVES, un racconto della vita dell’artista Maurizio Cattelan attraverso le parole
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Un irreale esperimento sociale dicono alla HBO, il colosso americano dell’intrattenimento visivo. “Fake Famous” viene promossa come la serie della vera storia di un esperimento sociale che rivela cosa sta realmente accadendo dietro le quinte della fama di influencer. Il ciclo è un tritato di visto e rivisto (amare considerazioni incluse) sulla sete di “like” di giovani wannabe che in Italia sono stati documentati benissimo negli ultimi anni.
Come ha recentemente scritto la giornalista Luana Salvatore in Italia “ci sono le influencer che al momento raccontano di un mondo che non c’è più”. L’agenda la detta il virus, come sappiamo, e i contenuti di bella vita e spensieratezza sembrano un eterno “TBT” (ripescaggi da giovedi) senza senso. L‘influencer culture, se continua di questo passo, abdica pure al suo ruolo di arma di distrazione e precipita nell’autoreferenzialità.
Cosa c’è di contemporaneo e vero nella storia di ragazzi americani che aspirano ad arrivare a Los Angeles per essere famosi? La pochezza della corsa al pink wall la dice tutta. Banalmente, c’è una parete rosa vicino a una famosa boutique della capitale californiana dove tutti si mettono in fila per fare foto per Instagram. Un set naturale all’angolo di Melrose Avenue vicino al negozio di Paul Smith dove ci si può mettere il filtro che si vuole. Ha fatto notizia quando il muro è stato imbrattato, per dirla tutta.
Creare gusto e trend con mezzi D-I-Y è sempre attitudine da incoraggiare. Provare a vivere le vite degli altri è preoccupante. E di questi tempi di più sostanza conviene cibarsi. Per non parlare della leva che programmi come “Fake Famous” e simili vogliono stuzzicare: la famigerata “FOMO”, fear of missing out, la paura dell’essere rimasti indietro. Forse è anche per questo che, come dice il regista del docu-fiction, Nick Bolton, “il successo di questi ragazzi si fonda sul farti sentire peggio“. E no, questo è troppo, Bolton: a noi, nel 2021, devono piacere cose che ci fanno sentire meglio.
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