22 Aprile 2024

Creativity is always uncomfortable

Perché si cresce partendo da una condizione di disagio. Il ruolo del cambiamento nella progressione dell'industria creativa.

22 Aprile 2024

Creativity is always uncomfortable

Perché si cresce partendo da una condizione di disagio. Il ruolo del cambiamento nella progressione dell'industria creativa.

22 Aprile 2024

Creativity is always uncomfortable

Perché si cresce partendo da una condizione di disagio. Il ruolo del cambiamento nella progressione dell'industria creativa.

La trasformazione profonda che sta attraversando le coscienze di chi crea e fa azienda di eccellenza oggi, impone un confronto autentico e senza alibi, per trovare vere soluzioni.

Attraverso 4 domande chiave da porsi e le conseguenti analisi con cui trovare risposte e gestire il cambiamento epocale. 

1 Perché il brand fatica tanto? / Investimento vs profitto 

2 Perché il prodotto non si vende? Tangibile vs intangibile 

3 Quali sono le strategie efficaci? Comfort vs Uncomfort 

4 Perché i negozi sono vuoti? Insegna vs contenitore 

Nella stragrande maggioranza dei casi le aziende che annaspano, sono alla ricerca di risposte efficaci per affrontare le performance negative. Contemporaneamente e solo per pochissimi casi, le aziende virtuose sono concentrate ad amplificare il business positivo. 

Per trovare le giuste risposte, vanno analizzate le decisioni e argomentate le scelte.

Imparando a sentirti un po’ a disagio perché è così che si otterrà  la crescita. 

Cercando di non aver timore di osservare i fenomeni perché incidono e inevitabilmente trasformano la struttura della società, i suoi modelli di organizzazione, nei vari contesti temporali e geografici. 

Un mutamento significativo della società in cui, le aziende e i suoi professionisti inconsapevoli, ne stanno soffrendo con grandi frustrazioni. 

Per addentrarci nell’intricato e insidioso mondo dell’industria creativa e poterne uscire indenni, bisogna armarsi di coraggio, competenze multidisciplinari ed esperienza.

Il coraggio per evitare di aggirare gli ostacoli rappresentati dai processi strutturali del brand.

Le competenze per poter sviluppare le giuste analisi.

L’esperienza per sentirsi sicuri e riuscire a confrontarsi.

La creatività non è per tutti proprio perché obbliga chi la sviluppa, a vivere a pelle viva e, a chi la organizza, a dover giocare a carte scoperte.

Dalla qualità alchemica e dal livello di aderenza alle regole del gioco, tra ceo e direttore creativo, si potranno definire le performance dell’industria creativa di moda, arte e design. 

Come ci siamo detti altre volte all’interno di questa rubrica, il brand prima di tutto è emozione e l’emozione è intangibile. 

Il direttore creativo è colui che rende tangibili le emozioni. 

Il ceo è colui che costruisce il recinto (più o meno solido) all’interno del quale la creatività può esprimersi liberamente.

Se nell’industria creativa la creatività non è posta al centro dei processi, si inizieranno a vedere i problemi, che diventeranno bilanci negativi di fine anno. 

Quanto più il recinto è organizzato, tanto più la creatività potrà esprimersi liberamente generando performance positive.

Purtroppo spesso si confonde il processo creativo con quello artistico e questa confusione può compromettere l’andamento dell’azienda. 

Quello creativo è un processo organizzato, pensato per essere condiviso e ideato per essere compreso dalla collettività.

Quello artistico è un processo spontaneo generato da un’esigenza che ha l’ego di esprimere una propria impellenza in cui è assolutamente secondaria la necessità di essere compresi negli intenti. 

Questa riflessione è visibile in maniera esponenziale in questi giorni di Design Week a Milano. È arrivato quel periodo dell’anno in cui i linguaggi della creatività si mescolano tra design e arte.

Dove l’arte fa da amplificatore del valore del design, al Salone e al Fuorisalone

È un’opportunità magica, da direttore creativo oggi e da manager ieri, per confrontarsi e osservare la quantità e qualità di progetti, messaggi, prodotti e strategie commerciali.

Quello che i miei occhi vedono in maniera sempre più nitida è che le aziende in grado di sviluppare un processo creativo corretto partendo cioè dalla propria identità, saranno quelle in grado di comunicare chi sono e di indicare dove vogliono andare in modo efficace. 

Riuscendo infatti ad esprimere con chiarezza il proprio codice stilistico, ovvero quel segno (disegno/ design) che renderà riconoscibile un prodotto anche senza il logo. 

E, più la creatività verrà organizzata correttamente, più il segno distintivo sarà chiaro generando l‘immagine coordinata. 

Rappresentando così la coerenza tra etica (valori, contenuti e intenzioni aziendali) ed estetica (idee, spazi, prodotti e segni distintivi) tra contenuti e contenitori fisici o metafisici. 

Se provassimo ad immaginarci all’interno di uno spazio, sia esso lavorativo, intimo o commerciale, potremmo visualizzarlo popolato da oggetti, persone e dinamiche. 

Il brand: potremmo rappresentare come lo spazio all’interno del quale la complessità delle dinamiche si esprimeranno attraverso chiare intenzioni aziendali o attraverso il caos di reazioni inconsulte.

Solo se l’intenzione aziendale sarà chiara, lo spazio (brand) si arricchirà di prodotti destinati ad avere un ciclo di vita completo e virtuoso: ideazione-definizione-progettazione-test-lancio-vendita.

Fino a qualche anno fa, anche il declino era parte integrante e finale del ciclo di vita. 

Ne parlo al passato, sebbene per molte aziende tuttora è così, perché il declino del prodotto per quanto mi riguarda non è più un tema.

Se sai chi sei e da dove vieni saprai dove andare e con che mezzi arrivarci. Banalmente cosa e quanto produrre perché tutto sia sostenibile. 

Seguendo questa logica, la vita di un’azienda si basa sempre meno sulla moltitudine di oggetti e sempre più, su pochi prodotti riconoscibili, comunicativi.

Facilmente riconducibili ai valori del brand. 

Il prodotto è tecnicamente il risultato di oggetto + valore intangibile del brand. 

E nel risultato il valore del brand rappresenta almeno per il 50% sul prezzo finale.

L’oggetto è tangibile, quindi rassicurante.

Il valore del brand è fatto di emozioni intangibili, quindi scomodo perché fuori dalla zona comfort.

Nella comprensione di questa definizione tra oggetto e prodotto, il disastro è dietro l’angolo.

Nel comfort, vicino al tangibile, al rassicurante non si otterrà mai l’immagine coordinata.

Si continuerà con ostinazione a spostare l’attenzione su oggetti che tra loro saranno inevitabilmente scollegati, non comunicando le stesse emozioni del brand a cui appartengono generando un effetto distonico e quindi respingente. 

Le cause principali stanno nella mancanza di ricerca, di analisi, di visioni, di intuizioni e coraggio nel portarle avanti. 

Ecco perché è sempre più comune che nelle aziende i veri artisti sono i manager e i CEO.

Con poca lungimiranza e tanti file Excel pieni di spontaneità vestita da organizzazione.

Cercando di controllare e comprendere la creatività, piuttosto che investire le energie nel costruire il famoso “recinto” ben strutturato all’interno del quale lasciare al creativo, libero sfogo di esprimersi, perché circoscritto e agevolato dai processi organizzati. Con un approccio più valutativo che controllante. 

L’obiettivo del creativo sarà quello di ottenere coerenza tra contenuti (messaggi e prodotti) e contenitori (vari concept design)  che vuol dire brand identity riconoscibile e consistente.

Quello del CEO sarà costruire i giusti processi, di allineare i rami d’azienda ed i suoi dipendenti, affinché tutti remino nella stessa direzione e abbiano la stessa idea di azienda, che vuol dire corporate identity solida e sana.

E dovrà essere valutato su questo.

Nel viaggio intrapreso assieme, tra etica ed estetica, tra filosofia e matematica, come fossero facce della stessa medaglia, possiamo iniziare a rispondere ai quesiti iniziali.

1 L’azienda non fattura perché manca la carenza.

2 Il prodotto non si vende perché non è riconoscibile nella sua estetica (disegno) e nella sua etica (valori, messaggi, identità del brand).

3 Se cerco di uscire dalla zona comfort, e non ho paura del confronto, sicuramente troverò le soluzioni perché eviterò di cercare alibi e ne beneficerà tutta l’azienda.

4 Lo spopolamento degli spazi commerciali (fisici e digitali), dipende dal valore dell’insegna che c’è fuori, cioè il nome del brand.

Non seduce, non lo desidero, non lo cerco, non lo vedo, non entro, non compro. 

Sono dunque i processi che vanno analizzati e cambiati perché lì si troveranno le vere soluzioni.

Continuando a spostare l’attenzione sugli oggetti, cioè sull’alibi, allora si inizierà a parlare di prezzo, della mancanza di qualche oggetto, di un materiale o di un colore.

Manca il fatturato perché il cliente voleva qualcos’altro, come se fosse sempre alla ricerca di qualcosa che non c’è.

La verità è che manca la costruzione di un immaginario del brand.

Il desiderio arriverà raccontando, seducendo ed utilizzando il prodotto per vendere la relazione col brand.

Il cliente non “lavora”!

È il brand che deve fare questa fatica per lui. 

Al cliente non servono borse capienti, cappotti caldi, scarpe per camminare o divani su cui stare. Il cliente desidera una Birkin, un Moncler, una Prada, una Frau. 

È nella mutazione degli aspetti valoriali degli individui la prossima grande sfida. 

È nella nuova relazione che intercorre tra spazio e tempo, in cui l’ago della bilancia è rappresentato dalla speranza nel futuro. 

Sebbene per la stragrande maggioranza delle aziende ancora sia un obiettivo, per il cliente la coerenza non è più un tema, viene data per scontata.

Se non sei coerente, non è che non compro.

Non esisti. 

Una nuova complessità si aggiunge alla performance del brand: 

farsi carico di generare speranza nel futuro. 

La coerenza, serve a legittimare il brand a dire delle cose che l’interlocutore ascolterà.

Se verranno riconosciuti nell’intenzione aziendale, nuovi valori di speranza, gli interlocutori saranno spinti a diventare megafono di quei messaggi, condividendoli con quante più persone possibili, perché parte integrante di un processo di cambiamento volto a migliorare le condizioni della collettività. Trasformandomi in un acquirente o in un ambasciatore che rende acquirenti coloro che possono permettersi di comprare. 

È chiaro che questo meccanismo possa fare la differenza proprio ora che la proiezione nel futuro è davvero molto incerta. 

Un nuovo approccio è emerso da pochissimi, non a caso virtuosi, brand che celebrano la bellezza dell’imperfezione, raccontata da opinion leader che fanno da traino al cambiamento e chi osserva non è più solo uno spettatore, bensì parte integrante del movimento al cambiamento.

Sono quelle aziende del lusso che hanno scelto di prendere distanza dal concetto di status con cui si rappresentavano fino a qualche tempo fa. 

Che raccontano l’imperfetto, attraverso esempi di impegno, fatica, dignità nel cadere e rialzarsi. Che stanno interloquendo con le persone che sono là fuori dicendo loro: “Siete importanti per noi anche se oggi non siete “perfetti”, con percorso “perfetto” da alto splendente. 

Anche se non vieni a comprare oggi sei il benvenuto! 

Ecco perché all’interno di questi brand virtuosi, i loro amministratori delegati e i loro direttori creativi, hanno compreso che non possono più rappresentarsi come un’elite che dialoga tra pochi eletti.

Bensì la rappresentazione avviene come parte di un unico e grande movimento culturale nel quale le condizioni degli individui/interlocutori e clienti potranno mutare domani. 

Prada, Celine, Loewe, Miu Miu, Bottega Veneta, Louis Vuitton, Chanel, Hermes sono già dentro a questo processo.  

Perché si sono concentrati nell’analisi del trend spotting e di quei macro fenomeni globali, che cambiano il comportamento delle masse. 

Perché hanno voluto vedere la fotografia che emerge sull’analisi del trend spotting anche se a volte lo scenario è molto scomodo.

All’interno del frame c’è una moltitudine di individui che, in varie parti del mondo, e per i più disparati motivi, sono in rivolta nelle strade e nelle piazze. 

Una ribellione corale allo status quo.

Ribellione, visceralmente connessa alla necessità di cambiare e migliorare le proprie condizioni.

Ribellione alimentata dal desiderio per la libertà di pensiero, dalla necessità di sopravvivenza, dalla sofferenza per il pianeta.

Ribellione connessa al bisogno di pace tra popoli, di uguaglianza tra razze, di equilibrio tra opportunità di lavoro.

Ribellione contro il dislivello di opportunità a parità di impegno e talento.

Per un mondo in cui la condizione individuale fatta di diritti e doveri, in cui il proprio prestigio dato da onore, rispetto, deferenza possa definire la forma di ricchezza, di potere e influenza in maniera molto più equa e non appannaggio di un élite. 

Comparirà così nella campagna di Bottega Veneta, un ragazzo afroamericano, fotografato in tutta grigia facendo jogging.

In rappresentanza di tutti coloro che, nati nel degrado, magari si sono persi e che, con impegno, devozione e fatica si sono ritrovati e rialzati.

O una campagna fotografica con  modelli “sconosciuti “ all’interno di un parco giochi per bambini.

In rappresentanza dell’approccio puro e spontaneo nei confronti del futuro che solo gli occhi dei bambini hanno.

Un’ode all’imperfezione e alla speranza nel futuro. 

Infatti quel ragazzo afroamericano altri non è che Asap Rocky (uno che di ghetto, salite e discese, legalità e illegalità ne sa qualcosa). 

Paparazzato in un momento comune a chiunque, scevro da qualunque posing, in un luogo pubblico, e all’aria aperta.

Non c’è rappresentazione più democratica del correre all’aperto con un’anonima tuta grigia e un paio di sneaker bianche.

Un momento spontaneo in cui tutti potranno rivedersi.

Non foss’altro che la banale tuta di cotone grigio in realtà è un outfit di pelle.

Per la cui la realizzazione, si sono impiegate le migliori maestranze artigiane e le più alte tecnologie dell’industria tessile.

L’installazione di Bottega Veneta al Fuorisalone 2024 a Milano.


BV non dovrà spiegare il perché del prezzo, perché sta raccontando il valore del passare del tempo. Nel prenderci cura di noi con una bella corsetta al parco o nella cura necessaria per realizzare un prodotto. 

Saranno gli Innovators e gli opion leader a farsi carico di questi messaggi, divulgandoli spontaneamente in un tamtam di video stories e tag. Non a caso Bottega Veneta ha abbandonato già da qualche anno e, in totale controtendenza, tutte le piattaforma digitali.

Saranno proprio gli Innovators ad essere imitati da chi ha realmente ha la capacità di acquisto per comprarsi quell’outfit in pelle da 12mila euro. 

La verità è che ci sentiamo tutti democraticamente uguali, perché viviamo nel limbo tra metafisico e fisico dall’avvento di iPhone e dalla comparsa del COVID.

I desideri e le opportunità hanno acquisito nuovi significati.

Il valore dello spazio e del passare del tempo è stato ridefinito.  

Nuovi quesiti che fanno da cornice ad un inaspettato gioco al rialzo. 

Di quali spazi si ha bisogno? 

Qual è il valore dei propri spazi e di quelli esterni e collettivi? 

Quali prodotti desidero all’interno di questi spazi?

Quanto tempo è servito per creare quei prodotti? 

Quanto impegno competenza esperienza e intuizioni creative sono state investite?

Per sentirsi parte del gioco dell’industria creativa più che del portafoglio, servirà intuito, impegno, studio, analisi, fatica, approfondimento.

Coinvolti nella visione di orizzonti lontani, allontanandosi dalla mediocrità, con lo sguardo proiettato a generare bellezza ed eccellenza per vivere in un mondo migliore. 

È il brand a dover cambiare scenario, mutando, evolvendo, innovando, per trainare in un nuovo immaginario collettivo fatto di speranza in un futuro migliore. 

 Il cambiamento è il vero dogma da superare, perché rassicura che nulla cambi continuando a lamentarci perché non cambia mai nulla. 

“But you know …Creativity is always uncomfortable“

In foto di apertura: l’installazione “Thinking Roms” di David Lynch al Salone del Mobile 2024 negli spazi di Rho Fiera, le stanze dedicate al pensiero.

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Picture of Stefano Regina

Stefano Regina

Nato e cresciuto a Sassuolo ( MO) da madre emiliana e padre napoletano ,entrambi ristoratori. Cresce tra cucine e banconi bar e tanti clienti. A 18 anni, diplomatosi Geometra, si trasferisce a Parma dove studia Conservazione dei Beni Culturali ,appassionandosi all'Arte Contemporanea. E' proprio al Teatro Regio di Parma che incontra per la prima volta il Teatro e, da mimo,diventa il lavoro con cui mantiene gli studi universitari. All'età di 22 anni parte per New York dove vive e lavora per un anno e mezzo. Partecipa alla realizzazione di diversi corti di nuovi e consolidati Film maker( Peter Greenaway, Cinzia Bomoll ),contemporaneamente lavorando come Barman in uno dei locali più in voga dell'epoca il Jackie 60, frequentato da avanguardie,designer e creativi di ogni genere. Rientrato in Italia, si diploma Attore presso l'Accademia Galante Garrone di Bologna e per 10 anni lavora come attore di Teatro, Televisione e Cinema. All'età di 30 anni si trasferisce a Milano e incontra il mondo del Retail Management e del Fashion Business. L'aspetto creativo e quello più manageriale e numerico lo appassionano e, attraverso il linguaggio della Moda, della Contemporaneità, della Cultura e del Marketing, diventa il lavoro nel settore a lui più congeniale. Con la gestione di diverse start up e re-branding nel mondo del Lusso e dei Multibrand, acquisendo esperienza ormai decennale; passando da Pirelli Pzero,Saint Laurent,partecipando alla creazione e allo sviluppo del progetto Mcollective,primo multibrand impostato per livelli di stati d'animo,sino all'attuale Stuart up worldwide di rebranding e sviluppo new concept per Vivienne Westwood e Andreas Kronthaler. Collabora con diversi istituti quali Ied Milano ,Instud,Professional DataJest ;seguendo corsi e docenze di marketing e fashion Buying e collaborazioni per progetti di marketing con Università quali Politecnico Milano (Polimoda) e West Minster University.
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